Antefatto


Correva l'anno 1764 quando alcuni viaggiatori inglesi in Italia, durante una delle loro escursioni nei dintorni di Napoli, si fermarono casualmente innanzi al portico di Santa Maria del Pianto, una chiesa annessa all'antichissimo convento dell'ordine dei Penitenti Neri. La magnificienza del portico, per quanto danneggiata dal tempo, destò tanta ammirazione che i viaggiatori furono curiosi di ispezionare la struttura cui esso apparteneva, e con tale intenzione si avviarono su per i gradini di marmo che vi conducevano.
Nella penombra del portico videro una figura con le braccia conserte e lo sguardo a terra, che camminava per tutta la lunghezza del corridoio al di là delle colonnine. L'uomo era evidentemente assorto nei propri pensieri al punto da non avvedersi del sopraggiungere degli stranieri. Ma poi si voltò, d'improvviso, come spaventato dal rumore dei passi, e quindi senz'altro indugio scivolò dietro una porta che dava nella chiesa, e scomparve.
Vi era qualcosa di straordinario nell'aspetto di quell'uomo, e il suo comportamento singolare non potè passare inosservato agli occhi dei visitatori. Era alto e di corporatura sottile, con le spalle incurvate in avanti; olivastra la carnagione, aspri i tratti del volto, il suo sguardo affiorando dalla peluria che avvolgeva la parte inferiore del volto sembrava esprimere una ferocia non comune.
I viaggiatori entrarono nella chiesa e si guardarono intorno in cerca dello sconosciuto, che era passato di là prima di loro, ma non lo trovarono da nessuna parte. Attraverso le oscure navate apparve loro solo un'altra persona: si trattava di un frate del convento adiacente, il quale a volte si incaricava di indicare agli stranieri le particolarità della chiesa, certamente assai degne d'attenzione. E a tale scopo costui si mosse verso il gruppo appena entrato.
L'interno dell'edificio non aveva nulla della vistosa ornamentazione e della luminosità diffusa che caratterizza le chiese italiane, e in particolare quelle di Napoli; mostrava invece una semplicità e grandiosità di concezione tanto più interessanti per osservatori di buon gusto, e l'austero contrasto di luci e ombre si adattava maggiormente a promuovere nei devoti la sublime elevazione dell'anima.
Dopo che il gruppo ebbe visitato i diversi altari e tutto ciò che fosse stato giudicato meritevole d'attenzione, mentre ritornavano verso il portico attraverso una navata tenebrosa riconobbero l'uomo che era apparso in cima alle scale, e che si dirigeva verso un confessionale sulla sinistra. Allorché vi entrò, uno dei visitatori lo indicò al frate, chiedendogli chi fosse; il frate, volgendosi a guardarlo, dapprima non rispose, ma al ripetersi della domanda chinò il capo, come in atto di obbedienza, e con voce pacata rispose: "è un assassino".
"Un assassino!" esclamò uno degli inglesi; "Un'assassino, ed è a piede libero!"
Un gentiluomo italiano che faceva parte del gruppo sorrise dello stupore dell'amico.
"Ha preso rifugio qui" rispose il frate; "Fra queste mura non gli si può nuocere".
"I vostri altari, allora, proteggono un omicida?" disse l'inglese.
"Non ha potuto rifugiarsi altrove" rispose mite il frate.
"Ma è incredibile!" ribatté l'inglese; "A che giovano le vostre leggi, se i più malvagi criminali possono sfuggirvi a questo modo? E come fa a sopravvivere qui? Dev'essere, per lo meno, in pericolo di morire di fame!"
"Perdonatemi" rispose il frate; "Vi è sempre qualcuno disposto ad assistere coloro che non possono badare a se stessi; e poiché questo delinquente non può lasciare la chiesa in cerca di cibo, essi glielo portano qui".
"Com'è possibile?" fece l'inglese, rivolgendosi all'amico italiano.
"Ebbene, questo poveretto non dovrà morire di fame" rispose l'amico; "E ciò accadrebbe inevitabilmente se non gli portassero da mangiare! Ma non vi è mai capitato, da quando siete in Italia, d'incontrare qualcuno nelle stesse condizioni di quest'uomo? Non è per nulla un caso inconsueto."
"Mai!" disse l'inglese, "E riesco a mala pena a credere a quel che vedo adesso!"
"Ma, caro amico" osservò l'italiano, "Se non mostrassimo misericordia verso persone tanto sventurate, di assassinii ne capitano così di frequente che le nostre città rimarrebbero per metà spopolate."
In ossequio a questa profonda osservazione l'inglese si inchinò gravemente.
"Ma guardate quel confessionale laggiù" soggiunse l'italiano, "Quello dietro alle colonne sulla sinistra della navata, sotto alla vetrata a colori. L'avete trovato? I colori del vetro gettano ombra, anziché luce, su quella parte della chiesa, e questo forse vi impedisce di distinguere ciò a cui alludo."
L'inglese guardò dove gli indicava l'amico, e vide un confessionale di legno di quercia, o di altro legno scurissimo, sistemato contro la parete, e notò anche che si trattava dello stesso confessionale in cui era entrato poc'anzi l'assassino. Era formato da tre scompartimenti sormontati da un baldacchino nero. Nella sezione centrale si trovava lo scranno del Confessore, innalzato di alcuni scalini sopra il pavimento della chiesa; e ai lati si aprivano due piccoli stanzini, o cabine, con dei gradini antistanti una paratia traforata, su cui il penitente poteva inginocchiarsi, e al riparo dagli sguardi affidare alle orecchie del Confessore i crimini che gli gravavano sulla coscienza.
"Lo vedete?" chiese l'italiano.
"Sì" rispose l'inglese; "è lo stesso in cui è entrato l'assassino; e mi pare una delle cose più cupe che abbia mai veduto; la sola sua vista sarebbe sufficiente a far disperare qualunque criminale!".
"Noi, in Italia, non siamo così inclini alla disperazione" ribatté sorridendo l'italiano.
"Bhé, ma allora questo confessionale?" domandò l'inglese. "L'assassino vi è entrato!"
"L'assassino non ha nulla a che fare con ciò che sto per dirvi", disse l'italiano; ma desidero che osserviate con attenzione il luogo, poiché ad esso sono legate certe circostanze affatto straordinarie."
"Quali circostanze?" fece l'inglese.
"Sono ormai parecchi anni da quando una certa confessione, che è ad esse collegata, venne ricevuta proprio in quel confessionale" soggiunse l'italiano; "La sua vista, e l'apparizione dell'assassino, assieme alla vostra sorpresa per la libertà che gli è concessa, mi hanno fatto ricordare la storia. Quando tornerete all'albergo ve la racconterò, qualora non abbiate altro modo più gradevole di impegnare il vostro tempo."
"Sono curioso di ascoltarvi" rispose l'inglese, "Non potreste raccontarmela adesso?"
"è davvero troppo lunga per raccontarla adesso; ci si impiegherebbe un'intera settimana; ne possiedo una versione scritta, e vi invierò il volume. Un orribile confessione divenne di pubblico dominio..."
"Perdonatemi" lo interruppe l'inglese "Ma questo è certamente un fatto insolito! Credevo che le confessioni fossero sempre mantenute segrete dal sacerdote che le riceve."
"La vostra osservazione è logica" replicò l'italiano; "Il vincolo al silenzio del sacerdote non viene mai infranto, eccetto per un ordine speciale d'un superiore; e anche in quel caso vi devono essere circostanze davvero speciali per giustificare una simile eccezione alle regole. Ma quando leggerete il racconto, la vostra sorpresa a questo proposito cesserà. Stavo giusto per dirvi che esso venne scritto da uno studente di Padova, il quale, trovandosi qui pochi giorni dopo la divulgazione della faccenda, fu tanto colpito da quegli avvenimenti che, in parte per esercizio, in parte per ricambiare certi servigi di poco conto che gli avevo reso, li stese su carta per me. Vi accorgerete dalla lettura dell'opera che lo studente era assai inesperto nell'arte della composizione, ma quel che vi interesserà sono i fatti, e da questi egli non si discostato. Ma venite, usciamo dalla chiesa."
"Non prima di aver dato un'altra occhiata a questo solenne edificio" rispose l'inglese, "E specialmente al confessionale che voi avete proposto alla mia attenzione!"
Mentre lasciava correre lo sguardo sugli alti soffitti e lungo le solenni prospettive di Santa Maria del Pianto, l'inglese scorse la figura dell'assassino allontanarsi furtiva dal confessionale e attraversare il coro, e scosso per aver nuovamente veduto quell'uomo, distolse lo sguardo e si affrettò a lasciare la chiesa.
Gli amici quindi si prepararono, e l'inglese, poco dopo essere rientrato in albergo, ricevette il volume. Vi stava scritto quanto segue.


Libro Primo, Capitolo Primo


LIBRO PRIMO

CAPITOLO PRIMO


Qual è il peccato occulto; quale la storia ignota,
che né artifizio estorce, né penitenza monda?
(La madre misteriosa)


Fu nella chiesa di San Lorenzo a Napoli nell'anno 1758 che Vincenzo di Vivaldi vide per la prima volta Elena Rosalba. La leggiadra e fine intonazione della sua voce avevano attirato l'attenzione di Vivaldi sulla sua figura, circondata da un'aria di squisita delicatezza e di grazia; ma il volto era nascosto dal velo. Tanto l'aveva ammaliato quella voce che in lui crebbe pungente la curiosità di mirare il suo viso, che immaginava dovesse esprimere tutta la sensibilità d'animo rivelata dalle parole da lei pronunciate. Ne ascoltava rapito l'elegante parlata, e a mala pena poté distogliere lo sguardo dalla sua persona prima che il servizio mattutino fosse concluso; allora la vide allontanarsi dalla chiesa assieme a una donna anziana cui porgeva il braccio, e che doveva essere la madre.
Vivaldi immediatamente seguì i loro passi, deciso a vedere in volto Elena, se possibile, e ad appurare dove le due donne abitassero. Camminavano leste, senza guardare né a destra né a sinistra, e quando voltarono per la strada di Toledo Vivaldi le aveva quasi perse di vista; ma accelerato il passo, e rinunciando alla distanza che aveva prudentemente mantenuto fino ad allora, le superò mentre entravano sul Terrazzo Nuovo, che corre lungo il golfo di Napoli in direzione del Gran Corso. Le superò, ma la bella sconosciuta aveva ancora il velo abbassato, ed egli non sapeva come attirare la sua attenzione, né come riuscire a scorgere le sue sembianze che tanto eccitavano la sua curiosità. Si sentiva frenato da una rispettosa timidezza, che si fondeva con l'ammirazione e lo obbligava al silenzio, nonostante desiderasse rivolgerle la parola.
Nel discendere gli ultimi scalini del Terrazzo, comunque, il piede della signora anziana cedette, e mentre Vivaldi si precipitava ad assisterla, la brezza proveniente dal mare afferrò il velo, che Elena non poteva più governare avendo le mani troppo occupate, e sospingendolo parzialmente da un lato dischiuse ai suoi occhi un volto dalla bellezza assai più sconvolgente di quanto avesse osato immaginare. I lineamenti disegnavano un profilo greco, e nonostante esprimessero la tranquillità d'un animo raffinato, gli occhi d'un azzurro scuro brillavano d'intelligenza. Ella soccorreva la propria compagna con tale premura che non si accorse subito dell'ammirazione che aveva destato in Vivaldi; ma nell'istante in cui i suoi occhi incontrarono quelli di lui se ne rese conto, e si affrettò a tirar giù il velo.
La caduta non aveva procurato lesioni gravi alla vecchia signora, ma poichè camminava con difficoltà Vivaldi colse l'occasione che gli si presentò, e insistè perchè accettasse il suo braccio. La donna rifiutò pur con infiniti ringraziamenti; ma lui ripetè l'offerta con tanta insistenza e deferenza, che infine ella accettò, ed essi si avviarono insieme verso la sua abitazione.
Durante il cammino Vivaldi tentò di conversare con Elena, ma non ottenne che risposte laconiche, e giunto alla fine della passeggiata ancora rifletteva su cosa avrebbe potuto dire per interessarla e distoglierla dalla sua austera riservatezza. Dal tipo di abitazione dedusse che si trattava di persone di decorosa benché modesta condizione. La casa era piccola ma dall'aspetto confortevole, e persino di buon gusto. Sorgeva su di un poggio circondato da un giardino e da vigneti che dominavano la città e il golfo di Napoli, un quadro in perenne movimento, ed era sovrastata da un folto boschetto di pini e maestose palme da dattero. Sebbene il piccolo portico e il colonnato antistante fossero di marmo comune, lo stile della costruzione aveva una certa eleganza: mentre offriva riparo dal sole, lasciava spirare i freschi venticelli che salivano dalla baia sottostante, con una veduta dell'intero arco delle sue spiagge incantate.
Vivaldi si arrestò al piccolo cancello che dava nel giardino, ove l'anziana donna ripetè la propria riconoscenza per le sue attenzioni, ma non lo invitò a entrare; ed egli, tremante d'angoscia e delusione, rimase un momento a guardare Elena, incapace di prendere commiato, ma incerto su cosa dire per prolungare l'incontro, finché la signora nuovamente gli augurò buona giornata. Vivaldi allora si fece coraggio abbastanza da chiedere il permesso di tornare a informarsi della sua salute, e ottenuta licenza      con gli occhi disse addio a Elena, la quale, mentre già si allontanava, osò ringraziarlo per la cura con cui aveva soccorso sua zia. Il suono della voce e questa dichiarazione di gratitudine lo resero ancor più riluttante ad andarsene di quanto già non fosse, ma infine egli si strappò via dal cancello. La soavità del volto di Elena occupava la sua fantasia, e i commoventi accenti del suo eloquio ancora gli vibravano nel cuore, mentre scendeva alla spiaggia sotto la villa, compiacendosi di sapersi vicino a lei, nonostante non potesse più vederla; e a volte sperava di scorgerla nuovamente, seppure da lontano, affacciata a un balcone della casa le cui tendine di seta sembravano invitare la brezza del mare. Rimase ora dopo ora disteso sotto i pini ombrosi che stormivano alti sulla spiaggia, oppure, incurante della calura, camminava ai piedi delle rocce che la incoronavano; richiamava alla mente l'incanto del suo sorriso, e pareva ancora ascoltare la dolce melodia della sua voce.
La sera tornò al palazzo del padre, a Napoli, pensoso ma lieto, angosciato ma felice; si soffermava pieno d'una piacevole speranza sul ricordo dei ringraziamenti ricevuti da Elena, senza però neppur pensare a formulare piani circa la sua futura condotta. Tornò giusto in tempo per accompagnare sua madre nella passeggiata serale in carrozza lungo il Corso, ove al passare di ogni gaia carrozza sperava di poter vedere l'oggetto dei suoi pensieri costanti; ma Elena non comparve. Sua madre, la marchesa di Vivaldi, notò la sua apprensione e il suo inconsueto silenzio, e gli pose alcune domande che si augurava gettassero luce sul suo mutato atteggiamento, ma le risposte del figlio non fecero che destare in lei maggiore curiosità, e nonostante si astenesse dall'insistere era probabile che sarebbe ricorsa a metodi più sottili per riproporre i propri quesiti.
Vincenzo di Vivaldi era l'unico figlio del marchese di Vivaldi, nobiluomo discendente da una delle più antiche famiglie del Regno di Napoli, e favorito a corte ove godeva di grande influenza, sicché il suo potere superava il suo stesso rango. Pari all'uno e all'altro era poi l'orgoglio della propria nascita, cui del resto si univa un diverso e più giusto orgoglio: quello di un animo in possesso di saldi principi morali. Essi governavano la sua condotta nelle questioni etiche così come nelle gelose distinzioni di ceto, ed elevavano le sue azioni tanto quanto i suoi giudizi. L'orgoglio era in lui al contempo vizio e virtù, forza e debolezza.
La madre di Vivaldi apparteneva a una famiglia antica quanto quella del padre, ed era egualmente gelosa del proprio lignaggio: ma il suo orgoglio era legato alla nascita e alla distinzione, e non si estendeva alla morale. Donna di passioni violente, altezzosa, vendicativa, nonché astuta e ingannatrice, era paziente nei suoi stratagemmi, e instancabile nel compimento della vendetta contro i malcapitati che osavano provocare il suo risentimento. Amava suo figlio piuttosto in quanto ultimo discendente di due illustri casati, destinato a riunire e sostenere l'onore di entrambi, che per sincero amore materno.
Vincenzo ereditò gran parte del carattere del padre, e assai poco di quello della madre. Il suo orgoglio era nobile e generoso quanto quello del marchese, ma aveva un poco la predisposizione alle passioni selvagge della marchesa, senza però l'astuzia di quest'ultima, la sua ambiguità, o la sua sete di vendetta. Di natura schietta, franco nei sentimenti, si offendeva facilmente, ma subito si quietava; si irritava a ogni minima mancanza di rispetto, per poi addolcirsi dinanzi alle scuse. Un alto senso dell'onore lo rendeva inflessibile di fronte all'offesa, non più di quanto la sua delicata umanità lo predisponesse alla riconciliazione e a condividere i sentimenti degli altri.
Il giorno seguente quello in cui aveva visto Elena, Vivaldi tornò a villa Altieri per approfittare del permesso concessogli di informarsi della salute della signora Bianchi. La prospettiva di vedere Elena lo riempiva di una gioia impaziente, cui si aggiungeva una trepida speranza che lo agitava sempre di più, man mano che si avvicinava alla loro abitazione, finché raggiunto il cancelletto del giardino, fu costretto a fermarsi alcuni istanti per prendere fiato e ridarsi contegno.
Dopo essersi annunciato a una vecchia domestica che era venuta al cancello, venne subito introdotto in un piccolo vestibolo, in cui trovò la signora Bianchi intenta a far gomitoli di seta. Era sola: ma dalla posizione di una sedia sistemata accanto al telaio da ricamo Vivaldi dedusse che Elena se n'era appena andata. La signora Bianchi lo ricevette con riservata cortesia, e parve rispondere assai cautamente alle sue domande a proposito della nipote, che egli sperava a ogni momento di veder comparire. Prolungò la sua visita fino a quando non vi furono più scuse, e avendo esaurito tutti gli argomenti di conversazione, il silenzio della signora Bianchi sembrò annunciargli che ella non aspettava ormai che la sua partenza. Col cuore gonfio di delusione, ottenuto a fatica il solo permesso di tornare a informarsi della salute dell'anziana signora dopo qualche tempo, Vivaldi infine si congedò. Avanzando lungo il giardino si fermò spesso a guardare indietro verso la casa, sperando di intravedere Elena attraverso una persiana, oppure gettava lo sguardo intorno a sé, quasi aspettandosi di vederla salute all'ombra dei platani lussureggianti. Ma la sua ricerca fu sempre vana, ed egli lasciò il luogo col passo lento e pesante di chi è preda dello sconforto.
Il giorno fu impiegato in tentativi di ottenere informazioni riguardo la famiglia di Elena, ma su questo poté procurarsi ben poche notizie interessanti. Gli fu detto che Elena era orfana e viveva sotto la protezione della zia, che la sua famiglia non era mai stata illustre, anzi era decaduta quanto a finanze, e che il suo unico sostegno era questa zia. Ma a Vivaldi non venne riferita una verità che doveva rimanere segreta, che cioè ella contribuiva al sostentamento dell'anziana parente, la cui unica proprietà era il piccolo terreno su cui sorgeva la loro casa, e che trascorreva giornate intere a ricamare la seta, la quale veniva ceduta alle suore di un convento vicino che la rivendevano, con assai grande profitto, alle signore di Napoli in vista alle loro celle. Non immaginava lontanamente che una certa vestaglia, splendida, che aveva visto spesso indossare da sua madre, fosse stata lavorata da Elena, né che alcune copie d'oggetti antichi che adornavano una delle stanzette di palazzo Vivaldi fossero state disegnate dalla sua mano. Se avesse conosciuto tali circostanze, queste avrebbero potuto soltanto aumentare la sua passione, mentre invece sarebbe stato prudente scoraggiarla, essendo tali stesse circostanze prove d'una disparità di condizione che avrebbe certamente indotto la sua famiglia a opporsi a un legame con quella di lei.
Elena poteva tollerare l'indigenza, non il disprezzo: così, per proteggere se stessa dai gretti pregiudizi della gente in mezzo a cui viveva, aveva cautamente tenuta loro nascosta l'operosità che rendeva onore alla sua natura. Non si vergognava della propria povertà, né della industriosa solerzia con cui vi poneva rimedio, ma il suo spirito rifuggiva da quei sorrisi vuoti e da quella condiscendenza umiliante che la prosperità a volte riserva all'indigenza. Non possedeva ancora un animo forte abbastanza, né un'apertura mentale sufficiente a infoderle noncuranza nei confronti dei sogghigni degli sciocchi e dei viziosi, e a gloriarsi della dignità di un'indipendenza virtuosa. Elena era l'unico sostegno della zia durante i suoi anni di declino; si mostrava paziente nel curarne i malanni e nel consolarne le sofferenze, e ricambiava l'amore materno che da questa riceveva con l'affetto d'una figlia. Non aveva mai conosciuto sua madre, avendola perduta durante la prima infanzia, e da quel tempo la signora Bianchi ne aveva preso il posto.
Così viveva Elena Rosalba, innocente e felice nel silenzioso compimento dei suoi doveri, protetta da un velo di riservatezza, allorché per la prima volta vide Vincenzo di Vivaldi. Questi non era un uomo tale da passare inosservato agli sguardi, ed Elena era stata colpita dallo spirito di dignità che traspariva dal suo portamento, e dal suo volto franco, nobile, pervaso da quella speciale espressione che pare manifestare le energie dell'anima. Ma ella era restia ad abbandonarsi a sentimenti più teneri dell'ammirazione, e si sforzò di allontanare l'immagine di Vivaldi dalla sua mente. Tornando a dedicarsi alle usuali occupazioni, tentò di recuperare  quello stato di tranquillità che l'apparizione di Vivaldi aveva in qualche modo interrotto.
Vivaldi, nel frattempo, agitato per la delusione e impaziente di sedare la propria angoscia, dopo aver impiegato gran parte del giorno a raccogliere informazioni che non gli fruttarono altro che dubbi e apprensione, decise di ritornare a villa Altieri quando l'oscurità della sera avrebbe celato i suoi passi, per trarre conforto dalla certezza di trovarsi prossimo all'oggetto dei suoi pensieri, e sperando che il caso potesse favorirlo una volta ancora concedendogli di vedere Elena per un istante, per quanto fugace.
Quella sera la marchesa di Vivaldi offriva un riferimento, e il sospetto destato in lei dall'impazienza del figlio la indusse a trattenerlo accanto a sé fino a ora tarda, incaricandolo di scegliere la musica per l'orchestra, e di curare l'esecuzione di un nuovo pezzo, opera di un compositore che ella stessa aveva portato al successo. Le sue riunioni erano tra le più brillanti e affollate di Napoli, e la nobiltà che era stata convocata al palazzo quella sera si divideva in due fazioni a proposito del valore del genio musicale da lei protetto, e di quello dell'altro candidato alla fama. L'esecuzione di quella serata, si diceva, avrebbe definitivamente deciso a chi spettava la vittoria. Era perciò un' occasione di estrema importanza e motivo di notevole tensione per la marchesa, la quale era altrettanto gelosa della reputazione del suo compositore favorito che dalla propria, sicché lo stato d'animo del figlio non poté assorbire che piccola parte della sua attenzione. Non appena ebbe modo di allontanarsi inosservato, Vivaldi lasciò la riunione, e avvoltosi nel mantello si precipitò a villa Altieri, situata non lontano a occidente della città. La raggiunse attento a non farsi notare, e senza fiato per l'agitazione costeggiò il limitare del giardino; qui, libero dagli obblighi dell'etichetta, sentendosi vicino all'oggetto amato provò i primi brevi momenti di gioia: una gioia tanto squisita quanto la stessa presenza di lei avrebbe potuto ispirargli. Ma questa felicità si attenuò col passare dei minuti e preso egli si sentì solo e abbandonato, come se Elena, alla cui presenza solo un istante prima aveva creduto di trovarsi, gli fosse stata sottratta per sempre. La notte era ormai inoltrata, e giacché dalla casa non proveniva alcuna luce dedusse che tutti erano andati a dormire, e ogni sua speranza di vedere Elena svanì. Sarebbe stato dolce, ad ogni modo, indugiare nelle sue vicinanze: perciò tentò di guadagnarsi l'accesso al giardino, così che potesse accostarsi alla finestra dietro cui, probabilmente, lei riposava. Non fu difficile infilarsi attraverso la densa fila di arbusti e alberi che circondavano il giardino, e presto Vivaldi si ritrovò sotto il portico della villa.
Era quasi mezzanotte, e il silenzio che regnava era blandito, più che interrotto, dal lieve sciabordio delle acque giù nella baia, e dai cupi mormorii del Vesuvio, che a intervalli lasciava in alto sull'orizzonte fiammate improvvise, per poi restituirlo all'oscurità. La maestosità della scena si accordava all'umore del suo animo, ed egli seguì attentamente i rumori intemittenti che giungevano alle sue orecchie come tuoni lontani che brontolavano indistintamente oltre le nuvole. Le pause di silenzio che succedevano a ogni borbottio della montagna, mentre l'attesa era proiettata verso il seguente, empirono la fantasia di Vivaldi in quel frangente di un'apprensione particolare, e assorto nel pensiero egli continuò a mirare il sublime e vago contorno delle spiagge, e il mare, appena visibile sotto l'ombra d'un cielo senza nubi.
Lungo la grigia distesa numerose imbarcazioni proseguivano la loro rotta silenziosa, affidandosi, per superare le acque profonde, alla sola stella polare che brillava d'uno splendore persistente. L'aria era calma, e una brezza risaliva il golfo arrecando una frescura assai frangente e ristoratrice: muoveva appena le cime degli ampi pini che riparavano la villa, senza altro rumore che quello delle onde e i mormorii della montagna lontanissima. A un tratto Vivaldi udì avvicinarsi un coro di voci profonde. Il carattere solenne della nenia attirò la sua attenzione; comprese che si trattava di un requiem, e provò ad appurare da quale direzione provenisse. Si avvicinava, pur restando distante, quindi scomparve nel buio.
Il fatto lo colpì: sapeva come fosse costume in certe contrade d'Italia recitare quella cantilena presso il letto del morente, ma questa volta i cantori funebri sembrava camminassero per la strada, o nell'aria. Riguardo alla cantilena non aveva dubbi, già una volta l'aveva ascoltata in circostanze che rendevano impossibile che la dimenticasse. Ora, mentre ascoltava le modulazioni del coro scemare nella lontananza, un passaggio commovente gli riportò alla mente con chiarezza la divina melodia che aveva udito da Elena nella chiesa di San Lorenzo. Sopraffatto da quel ricordo Vivaldi riprese a camminare, e vagando per il giardino si trovò all'altra estremità della villa. Qui a un tratto gli giunse la voce di Elena in persona che recitava l'inno di mezzanotte alla Vergine: si accompagnava al liuto, che al suo tocco produceva suoni commoventi e delicati. Vivaldi rimase per un momento immobile e in estasi, non osando quasi respirare per non perdere neppure una nota di quel canto tenue e sacro, che sembrava sgorgare da una devozione benedetta. Poi, guardandosi attorno in cerca dell'oggetto della sua ammirazione, scorse attraverso l'ombroso fogliame di una clematide una luce che lo attrasse verso una finestra, e lì apparve Elena. Le persiane erano aperte per permettere alla frescura della notte di entrare, così che potè vedere perfettamente sia lei che la stanza. Elena si stava alzando dal piccolo altare presso cui aveva concluso la funzione; l'ardore della devozione splendeva ancora sul suo viso allorché ella levò lo sguardo, e con compunzione rapita lo rivolse al cielo. Teneva ancora in mano il liuto, ma non più ne risvegliava le corde, e sembrava lontana da ogni cosa la circondasse.
I capelli sottili erano raccolti disordinatamente in una retina di seta, e alcune ciocche che ne erano fuoriuscite giocavano sulla nuca e attorno al suo splendido volto, ora non coperto neppure in parte da alcun velo. Il leggero drappeggio della sua veste, la sua intera figura, l'espressione, l'atteggiamento ne facevano una modella ideale per la statua d'una ninfa greca.
Vivaldi era perplesso e agitato fra il desiderio di afferrare un'opportunità che poteva non ripresentarsi mai più per dichiararle il proprio amore, e il timore di offenderla, introducendosi nella sua intimità a un'ora tanto segreta; ma mentre in tal modo esitava udì Elena sospirare, e quindi, con la dolcezza propria del suo eloquio, pronunciare il suo nome. Nell'ansia tremante con cui attendeva ciò che avrebe fatto seguire alla menzione del suo nome, mosse la clematide che circondava le persiane, ed Elena si voltò verso la finestra: ma Vivaldi era interamente nascosto dal fogliame. Elena allora si accosto alla finestra, e Vivaldi, ormai incapace di contenersi, si mostrò a lei. Ella rimase un istante impietrita, mentre il volto acquistava un pallore cinereo; poi richiusa la persiana con gesto trepido e affrettato, lasciò la stanza. Vivaldi sentì le proprie speranze svanire insieme alla sua immagine.
Dopo essersi soffermato nel giardino per qualche tempo senza scorgere alcuna luce proveniente da altre finestre della casa, e senza udire rumori dietro a esse, prese a malincuore la via di Napoli. Cominciò adesso a porsi alcune domande che avrebbe dovuto sollevare già prima, e a tentare di stabilire per qual motivo ricercasse il rischioso piacere di vedere Elena, dal momento che la famiglia di lei era di condizione tale da rendere impossibile il consenso al matrimonio da parte dei suoi genitori.
Era assorto in mille pensieri a questo riguardo, ora essendo quasi deciso a non vederla mai più, ora rifuggendo da una condotta che lo avrebbe schiantato sotto la violenza della disperazione, quando all'uscita di una buia volta diroccata che si inarcava sopra alla strada i suoi passi s'incrociarono con quelli d'un uomo in abito monacale, il cui volto era celato dal cappuccio ancor più che dall'oscurità. Lo straniero si rivolse a lui chiamandolo per nome e disse: "Signore! I vostri movimenti sono sorvegliati; guardatevi dal visitare nuovamente villa Altieri!" Detto ciò scomparve, prima ancora che Vivaldi potesse rinfoderare la spada che aveva mezzo sguainata, o esigere una spiegazione delle parole che aveva udito. Gridò più volte e ad alta voce scongiurò lo sconosciuto di farsi vedere e rimase a lungo in quei paraggi; ma la visione non riapparve.
Vivaldi arrivò a casa con la mente agitata da questo incidente, e tormentata dalla gelosia cui esso aveva dato origine. Dopo aver vagliato diverse ipotesi, arrivò alla conclusione che l'avvertimento con cui era stato messo in guardia era opera di un rivale, e che il pericolo che lo minacciava veniva dal pugnale della gelosia. Questa convinzione gli rivelò d'un tratto la profondità della sua passione, e l'imprudenza con cui essa era stata prontamente accolta. Tuttavia questa nuova prudenza era tanto lontana dal sopraffare il suo errore che, cedendo alla tortura più deliziosa che avesse mai conosciuto,
si decise, accadesse quel che accadesse, di dichiarare il proprio amore a Elena e di chiedere la sua mano. Giovane infelice, non sapeva in quali sventure l'avrebbe precipitato quella passione!
Una volta giunto a palazzo Vivaldi, apprese che la marchesa, che aveva notato la sua assenza, aveva ripetutamente chiesto di lui, e dato ordini che le venisse riferita l'ora del suo rientro. Si era comunque ritirata a riposare. Il marchese, invece, che aveva accompagnato il Re in gita a una delle ville reali sul golfo, tornò a casa subito dopo Vincenzo, e prima di rientrare nel suo appartamento s'incontrò col figlio, cui lanciò uno sguardo di singolare disappunto, evitando però di dire nulla che ne spiegasse o lasciasse intendere il motivo: e a seguito d'una breve conversazione i due si separarono.    
Vivaldi si chiuse nel suo appartamento a deliberare, se in tal modo è lecito chiamare quella sua discussione interiore, in cui a prevalere era non l'esercizio della facoltà discriminativa, ma un conflitto di passioni. Per parecchie ore percorse la stanza della suite, ora torturato dal ricordo di Elena, ora infiammandosi di gelosia, ora preoccupato dalle conseguenze del passo imprudente che stava per compiere. Conosceva a sufficienza il carattere del padre, e certi tratti di quello della madre, per temere che il loro dispiacere in riguardo a quel matrimonio sarebbe stato irrimediabile; d'altro canto, quando considerava che era il loro unico figlio, si sentiva più incline ad ammettere una speranza di perdono, nonostante il fatto che le circostanze avrebbero certamente aumentato il loro disappunto. Queste riflessioni venivano poi frequentemente interrotte dal timore che Elena avesse già destinato il suo affetto al presunto rivale. Ad ogni modo, egli si consolava in parte riandando a quel sospiro e alla tenerezza con cui ella aveva subito dopo pronunciato il suo nome. Ma se anche Elena non fosse stata contraria alla sua dichiarazione, come avrebbe potuto lui domandare la sua mano, e sperare che gli venisse concessa, quando aveva specificato che tutto doveva avvenire in segreto? Non osava credere che ella avrebbe consentito a entrare a far parte di una famiglia che disdegnava di accoglierla: sicché nuovamente veniva sopraffatto dallo sconforto.
La mattina seguente lo trovò nello stesso stato di turbamento in cui la notte l'aveva lasciato. La decisione, comunque era presa: si trattava di sacrificare quel che ora considerava un illusorio orgoglio di nascita in favore di una scelta che era certo gli avrebbe assicurato la felicità per tutta la vita. Ma prima di arrischiarsi a fare la dichiarazione a Elena, si rendeva necessario appurare se quest'ultima nutrisse un qualche interesse per lui, o se avesse già consacrato il proprio cuore al suo rivale in amore, e inoltre chi fosse in realtà codesto rivale. Era assai più facile desiderare d'avere queste informazioni che procurarsele e nonostante Vivaldi avesse tentato mille volte di dar forma a un piano, il delicato rispetto che nutriva per Elena, o il timore di offenderla, o il sospetto d'essere scoperto dalla propria famiglia prima d'essersi assicurato dei sentimenti di lei sempre sorgevano a contrastare i suoi progetti d'indagine.
In tale difficile situazione Vivaldi aprì il suo cuore a un amico che da lungo tempo godeva della sua confidenza e al quale chiese consiglio forse con un'ansia e una sincerità maggiori di quanto si usi in tali occasioni. Non cercava una conferma delle proprie vedute, ma il giudizio imparziale di un'altra persona. Bonarmo, per quanto fosse poco qualificato per la mansione di consigliere, non si fece scrupolo di esprimere il suo punto di vista. Al fine di giudicare se Elena fosse incline a favorire la corte di Vivaldi egli propose, secondo l'usanza del luogo, di organizzare una serenata. Sosteneva infatti che Elena, qualora non fosse mal disposta nei suoi confronti, avrebbe mostrato un qualche segno d'apprezzamento: altrimenti sarebbe rimasta silenziosa e nascosta. Vivaldi si oppose a tale maniera rozza e inadeguata di esprimere un amore sublime come il suo, e possedeva un'opinione troppo nobile dell'animo e della sensibilità di Elena per credere che il futile omaggio d'una serenata avrebbe potuto lusingarne l'amor proprio, o interessarla in suo favore. E anche in tal caso, non osava credere che Elena avrebbe manifestato alcun segno di apprezzamento. 
L'amico rise dei suoi scrupoli e della sua alta considerazione di quel che chiamava sensibilità romantica, e ribatté che l'ignoranza del mondo era l'unica scusa atta a giustificare il suo atteggiamento. Ma Vivaldi interruppe i suoi motteggi, e non tollerò che parlasse in quel modo di Elena neppure per un istante, né che definisse romantica la sua sensibilità. Bonarmo comunque insisté ancora sulla serenata come sistema per lo meno possibile di scoprire quale fosse la sua disposizione verso di lui prima che egli si apprestasse a dichiarare formalmente la propria richiesta; infine Vivaldi, perplesso e sconvolto dall'apprensione e dall'impazienza di porre fine al presente stato di incertezza, si trovò a tal punto sopraffatto dalle sue stesse obiezioni, piuttosto che dall'opera di persuasione dell'amico, che accettò di tentare l'avventura di una serenata quella stessa sera. Vi acconsentì più per sottrarsi allo scoramento che non per la speranza di riuscire: giacché era ancora convinto che Elena non avrebbe mostrato alcun segno che potesse dissipare i suoi dubbi.
Infilarono gli strumenti musicali sotto i mantelli, e coprendosi il volto per non farsi riconoscere si avviarono silenziosi e assorti per la strada che conduceva a villa Altieri. Avevano già oltrepassato l'arco presso cui Vivaldi era stato fermato dallo sconosciuto la notte precedente, quando all'improvviso egli udì un rumore accanto a sé, e alzato il capo al di sopra del mantello riconobbe la medesima persona! Non fece neppure in tempo a pronunciare un'esclamazione di sorpresa, che lo sconosciuto gli si pose nuovamente dinanzi. "Non andare a villa Altieri", gli disse in tono grave, "Se non vuoi andare incontro a una sventura che faresti bene invece a fuggire."
"Quale sventura?" domandò Vivaldi arretrando. "Parla, ti scongiuro!" Ma il monaco era scomparso, e l'oscurità della notte rendeva vano ogni tentativo di appurare da che parte se ne fosse andato.
"Dio mi guardi!" esclamò Bonarmo, "Questo va oltre il mio comprendonio! Ma torniamo a Napoli, è bene obbedire a questo secondo avvertimento."
"Questo va oltre la mia pazienza", ribatté Vivaldi; "Da che parte è andato?"
"Mi è scivolato accanto", rispose Bonarmo, "E prima che potessi afferrarlo era già scomparso!"
"Devo affrontare il peggio in questo momento", disse Vivaldi, "Se ho un rivale, la cosa migliore è muovergli incontro. Procediamo."
Bonarmo protestò accennando ai seri pericoli che un comportamento tanto avventato minacciava di causare. "è evidente che hai un rivale", disse, "E il tuo coraggio non ti servirà a nulla contro sicari prezzolati." Vivaldi sentì il cuore gonfiarsi alla menzione di un rivale. "Se credi sia pericoloso continuare, andrò da solo", disse.
Offeso dal rimprovero, Bonarmo accompagnò l'amico in silenzio, e insieme raggiunsero senza altre interruzioni l'entrata della villa. Vivaldi fece strada verso il lato da cui era entrato la notte precedente, e i due raggiunsero agilmente il giardino.
"Dove sono questi terribili sicari da cui mi mettevi in guardia?", fece Vivaldi in un accesso di sarcasmo.
"Sii cauto nel parlare", rispose l'amico; "Anche ora potremmo trovarci sotto il loro tiro."
"E loro sotto il nostro", osservò Vivaldi.
Poco dopo, gli intrepidi amici raggiunsero l'aranceto situato presso la casa, dove, affaticati dalla salita, si fermarono a riprendere fiato e a preparare gli strumenti per la serenata. La notte era calma: solo allora essi udirono il vocio di una folla lontana. All'improvviso il fulgore dei fuochi d'artificio esplose nel cielo; venivano lanciati da una villa sul margine occidentale del golfo, per onorare la nascita di uno dei principi reali. S'impennavano fino ad altezze immense, e il loro splendore, irradiandosi silenzioso attraverso l'oscurità notturna, rischiarava le mille facce rivolte in su della folla accorsa a guardare, illuminava le acque della baia  e le barchette che ne sfioravani la superficie, e mostrava con chiarezza l'intera curva delle erte spiagge, la maestosa città di Napoli alta sul litorale sottostante, e tra le colline lontano le terrazze delle case affollate di spettatori, e il Corso pullulante di carrozze e lampioni sfavillanti.
Mentre Bonarmo osservava la magnificenza della scena, Vivaldi voltò lo sguardo verso l'abitazione di Elena, una parte della quale si sporgeva fra gli alberi, con la speranza che lo spettacolo l'avesse attirata su uno del balconi: ma ella non gli apparve, né vi erano luci che stessero a indicare la sua vicinanza.
Mentre ancora riposavano sull'erba dell'aranceto, sentirono un improvviso agitarsi di foglie, come se i rami venissero mossi da qualcuno che tentava di aprirsi la strada fra essi. Vivaldi domandò: "Chi va là?", ma non ottenne risposta. Ciò fu seguito da un lungo silenzio.
"Siamo sorvegliati", disse infine Bonarmo, "E proprio ora, forse, siamo quasi sotto il pugnale dell'assassino: andiamocene."
"Oh, fosse il mio cuore così al sicuro dagli strali dell'amore, assassino della mia pace" esclamò Vivaldi, "Come lo è il tuo da quelli dei sicari! Amico mio, vi è ben poco che possa interessarti visto che i tuoi pensieri hanno tanto agio da perdersi in vane preoccupazioni."
"Il mio timore nasce dalla prudenza, non dalla debolezza", ribatté Bonarmo con acredine; "E scoprirai forse come questa mi manchi del tutto, quando soprattutto vorresti che ne avessi."
"Capisco" rispose Vivaldi; "Portiamo a termine questo affare e ti sarà data soddisfazione, giacché ti ritieni oltraggiato: sono tanto ansioso di riparare a un'offesa quanto geloso di riceverne."
"Già", fece Bonarmo, "Vorresti lavare l'offesa che rechi al tuo amico col suo stesso sangue."
"Oh! Giammai, giammai!" disse Vivaldi poggiandosi alla sua spalla. "Perdona la mia precipitosa violenza, rammenta il turbamento del mio animo."
Bonarmo ricambiò l'abbraccio. "Basta", disse, "Via, smettiamola! Amico mio, ti stringo di nuovo al cuore."
Nel corso della conversazione avevano lasciato l'aranceto e raggiunto i muri della villa, dove si appostarono al di sotto di un balcone che sovrastava la finestra attraverso cui Vivaldi aveva veduto Elena la notte precedente. Accordarono gli stumenti e aprirono la serenata con un duetto. Vivaldi aveva una fine voce di tenore, e la medesima predisposizione che ne aveva fatto un appassionato di musica gli insegnò ora a modulare le cadenze con eccellente grazia, e a distribuire gli accenti con un'espressività assai semplice e commovente. Il suono sembrava riprodurre le vibrazioni del suo animo, tenero, implorante, eppure vigoroso. Quella notte, l'entusiasmo gli ispirò tutto il trasporto che la musica, forse, è in grado di comunicare. Quale ne fosse l'effetto su Elena, del resto, non ebbe modo di giudicare, poiché ella non comparve né al balcone, né alla finestra, né dette alcun segno d'apprezzamento. Nulla interruppe la quiete della sera, eccetto i suoni della serenata, nessuna luce dall'interno della villa turbò l'oscurità all'esterno. Una volta, per la verità, durante una pausa del concerto, Bonarmo credette di udire delle voci nelle vicinanze, come di qualcuno che temesse d'essere udito, e ascoltò attentamente ma senza poter appurare la verità. A tratti le sentiva rimbombare profonde, ma poi tornava un silenzio di tomba. Vivaldi sosteneva si trattasse nient'altro che del confuso vociare della folla lontana, sulla spiaggia, ma Bonarmo non si lasciò convincere tanto facilmente.
I musicisti, fallito il primo tentativo di attirare l'attenzione di Elena, si spostarono sul lato opposto dell'edificio, e si piazzarono di fronte al portico, ma con altrettanto scarso successo. Dopo aver dato prova delle loro capacità armoniche e della loro pazienza per oltre un'ora, rinunciarono a ogni ulteriore sforzo di vincere l'ostinatezza di Elena. Vivaldi, nonostante avesse in principio nutrito fievoli speranze di vederla, soffriva ora l'angoscia della delusione: e Bonarmo, inquieto per le possibili conseguenze della sua disperazione, era tanto preoccupato di convincerlo che non aveva alcun rivale, quanto era stato poc'anzi ostinato nell'affermare che l'aveva. Infine essi lasciarono i giardini. Vivaldi promise che non si sarebbe dato pace finché non avesse scoperto chi fosse lo sconosciuto che aveva sfacciatamente rovinato la sua pace, per costringerlo a rendere una spiegazione dei suoi ambigui avvertimenti; mentre Bonarmo protestava circa l'imprudenza e la difficoltà delle indagini, sottolineando che tale condotta avrebbe finito col diffondere la notizia del suo attaccamento a Elena là dove egli soprattutto non voleva si sapesse.
Vivaldi rifiutò di cedere a rimostranze o considerazioni di sorta. "Vedremo", disse, "Se questo demone in vesti di monaco mi perseguiterà ancora nel solito luogo: se oserà farlo non sfuggirà alla mia presa, e se no, attenderò vigile il suo ritorno, così come egli sembra aver atteso il mio. Mi apposterò nella penombra dell'antica rovina e lo aspetterò, dovessi restarci fino alla morte!"
Bonarmo fu particolarmente colpito dalla veemenza con cui Vivaldi pronunciò queste ultime parole, ma si astenne dall'opporsi oltre al suo proposito, e gli suggerì soltanto di assicurarsi di essere bene armato. "Poiché", soggiunse, "Laggiù potrai aver bisogno di armi, sebbene non ve ne fosse bisogno a villa Altieri. Ricorda quanto ti disse lo straniero, che i tuoi passi sono sorvegliati."
"Ho con me la spada", rispose Vivaldi, "E lo stiletto che porto abitualmente; ma dovrei chiederti quali siano le tue armi di difesa."
"Shh!", fece Bonarmo allorché voltarono ai piedi d'una roccia che dominava la strada, "ci stiamo avvicinando al luogo, ecco laggiù l'arco diroccato!"
Esso apparve ai loro occhi, fosco e sospeso fra due rupi dove la strada piegava e scompariva. Su una delle rupi sorgevano le rovine di un forte romano di cui esso faceva parte, e sull'altra pini ombrosi e boschetti di querce che adornavano la roccia fino ai piedi.
Avanzarono in silenzio, con passo leggero e gettando sovente all'intorno un cauto sguardo, aspettandosi a ogni istante di vedere il monaco sbucar fuori da qualche nascondiglio nei dirupi, e avvicinarsi a loro. Ma raggiunsero la porta senza incontrare ostacoli. "Siamo arrivati prima di lui, comunque", disse Vivaldi mentre entravano nel buio. "Parla piano, amico mio", fece Bonarmo, "L'oscurità potrebbe nascondere altri, oltre a noi. Il posto non mi piace."
"Chi altro se non noi sceglierebbe un rifugio tanto lugubre?" sussurrò Vivaldi, "A meno che, naturalmente, non si tratti di banditi; questa tetraggine si addice in verità al loro stato d'animo, e ben si addice anche al mio."
"Ma si addice anche ai loro propositi, oltre che allo stato animo", osservò Bonarmo. "Togliamoci da questo buio profondo e torniamo verso la strada aperta, dove possiamo vedere altrettanto da vicino quelli che arrivano."
Vivaldi obiettò che sulla strada essi stessi potevano essere scoperti. "E se il mio torturatore sconosciuto ci vede, il piano salta, poiché se quello vuole attaccarci lo farà solo di sorpresa, a evitare che noi lo si possa acciuffare da parte nostra."
Detto questo, Vivaldi si piazzò dove più fitta era l'oscurità del rudere, che aveva notevole profondità, accanto a una rampa di gradini intagliati nella roccia che salivano alla fortezza. L'amico lo seguì sistemandosi al suo fianco. Dopo una pausa di silenzio, durante la quale Bonarmo meditava e Vivaldi vigilava impaziente, il primo disse: "Credi davvero che i nostri sforzi di agguantarlo potranno riuscire? Mi scivolò accanto con strana facilità, certamente era più che umano!"
"Cosa vuoi dire?", domandò Vivaldi.
"Ecco, voglio dire che potrei credere alle superstizioni. Questo luogo, forse, mi ispira sentimenti cupi a esse congeniali, poichè trovo che in questo istante ben poche storie mi sembrerebbero troppo assurde per credervi."
Vivaldi sorrise. "E devi ammettere", continuò Bonarmo, "Che quell'uomo ci è apparso in circostanze piuttosto straordinarie. Come poteva conoscere il tuo nome, che pronunciò, come hai raccontato, durante il primo incontro? Come poteva sapere donde venivi o dove intendevi andare? Per quale magia poteva essere informato dei tuoi piani?"
"Non sono certo che ne sia informato tuttora", ribatté Vivaldi; "Ma se anche lo fosse, non sono necessari mezzi sovrumani per ottenere tali informazioni."
"Gli eventi di questa sera dovrebbero certamente convincerti che egli è a parte dei tuoi intendimenti", insisté Bonarmo. "Credi possibile che Elena sarebbe rimasta insensibile alle tue attenzioni, se il suo cuore non fosse stato preso da altri, e che non si sarebbe mostrata alla finestra?"
"Tu non conosci Elena", rispose Vivaldi, "E perciò ti perdono una volta di più questa domanda. Tuttavia, se fosse stata disposta ad accettare la mia corte, certo un piccolo segno di approvazione...", non terminò la frase.
"Lo sconosciuto ti avvertì di non andare a villa Altieri", riprese Bonarmo, "Sembrava prevedere l'accoglienza che ti era riservata, e accennò a un pericolo cui sei finora fortunatamente scampato."
"Già, egli previde fin troppo esattamente quell'accoglienza", disse Vivaldi smarrendo la prudenza nella foga della passione; "Ed è lui stesso, probabilmente, il rivale da cui voleva indurmi a star lontano. Ha assunto quel travestimento solo per far gioco sulla mia ingenuità con maggiore efficacia, e per distogliermi dal corteggiare Elena. E io dovrei starmene quieto ad aspettare il suo arrivo? O starmene acquattato nell'ombra come un assassino a causa di un simile rivale?"
"Per amor del cielo!", fece Bonarmo, "Modera questi eccessi, pensa a dove siamo. Queste tue supposizioni sono improbabili al massimo grado." Spiegò per quali ragioni lo credesse, e riuscì a convincere Vivaldi, che una volta ancora fu persuaso a essere paziente.
Erano rimasti a vigilare per parecchio tempo, quando Bonarmo vide una figura accedere all'arco dal lato più vicino ad Altieri. Non ne udì il passo, ma ne scorse l'oscura sagoma appostarsi all'entrata, dove il crepuscolo della notte lucente s'infiltrava per pochi passi all'interno. Vivaldi teneva gli occhi fissi sulla strada che conduceva a Napoli, e pertantò non potè vedere ciò che aveva attirato l'attenzione di Bonarmo, il quale, temendo l'impulsività dell'amico, evitò di fargli notare immediatamente quel che aveva visto. Giudicò invece più prudente stare a osservare i movimenti dello sconosciuto così da appurare se realmente si trattasse del monaco. La statura dell'uomo e la scura veste in cui pareva avvolto lo indussero infine a credere che fosse lui quello che attendevano. Afferrò allora il braccio di Vivaldi per richiamarne l'attenzione, quando la figura si mosse e scivolò nel buio scomparendo: ma questo non prima che Vivaldi avesse compreso il motivo del gesto dell'amico e del suo accorto silenzio.
Non udirono alcun rumore di passi sovranzarli, e convinti che quella persona, qualunque cosa fosse, non aveva ancora lasciato la porta, mantennero il loro posto vigili e immobili. A un tratto sentirono nei loro pressi un fruscio come di vesti, e Vivaldi, incapace di contenere oltre la propria impazienza, uscì dal suo nascondiglio e stese le braccia a impedire che alcuno potesse fuggire, quindi domandò: "Chi va là?". Il fruscio cessò, e non si ebbe risposta. Bonarmo sguainò la spada, gridando che l'avrebbe fiondata per l'aria fino a che non avesse rivelato se stessa, non le avrebbe fatto alcun male. Vivaldi promise lo stesso da parte sua; ma ancora non giunse risposta. Mentre stavano così in attesa di udire una voce, parve loro che qualcuno li avesse aggirati, e in effetti il passaggio non era abbastanza stretto da impedirlo. Vivaldi corse avanti, ma non vide nessuna figura uscire dall'arco sulla strada, dove la luce più forte avrebbe dovuto renderla visibile.
"Di sicuro è passato qualcuno", sussurrò Bonarmo, "E mi pare di sentire dei passi lassù, sui gradini che conducono alla fortezza."
"Inseguiamolo", gridò Vivaldi, e cominciò a salire.
"Fermati, per amore del cielo fermati!", fece Bonarmo; "Pensa a cosa stai per fare! Non sfidare la totale oscurità delle rovine, non inseguire l'assassino nella sua tana!"
"è lui il monaco!", esclamò Vivaldi, sempre salendo, "E non mi sfuggirà!".
Bonarmo si fermò un istante ai piedi della scalinata, mentre l'amico scompariva; esitava a decidere cosa fare, finché vergognandosi di lasciarlo andare solo incontro al pericolo s'inoltrò su per la rampa, superando i gradini irregolari senza difficoltà.
Giunto in cima alla rocca si ritrovò su un terrazzo che correva lungo la sommità della porta, e che un tempo era stato fortificato; attraversando la strada dominava la gola su entrambi i lati. Alcuni frammenti di mura massicce ancora dotati delle feritoie per arcieri stavano a testimoniare l'antica funzione di quel passaggio, che conduceva altresì a una torre quasi nascosta dai numerosi pini arroccati sulla rupe di fronte. Esso era perciò servito non solo come poderosa batteria a protezione della strada, ma collegando i due versanti della strettoia costituiva una linea di comunicazione tra il forte e l'avamposto.
Bonarmo si guardò intorno alla vana ricerca dell'amico, e solo gli echi, tra le rocce, della propria voce risposero alle sue ripetute chiamate. Dopo aver brevemente ponderato se entrare all'interno dell'edificio principale o attraversare il terrazzo fino alla torre, scelse la prima possibilità, e penetrò all'interno di un'area accidentata, le cui mura lungo il declivio del precipizio erano a mala pena rintracciabili. La cittadella, un torrione circolare di grandiosa imponenza con alcune porte romane sparse all'intorno, era tutto ciò che restava di questa fortezza un tempo importantissima, eccetto, in verità, una massa di rovine nei pressi del limitare della rupe, la cui forma rendeva difficile indovinare a quale scopo fossero destinate.
Bonarmo oltrepassò le pareti immani della cittadella, ma la completa oscurità al loro interno arrestò i suoi passi, ed egli si contentò di chiamare a gran voce Vivaldi, dopodiché ritornò all'aria aperta.
Mentre si avvicinava alla massa di rovine la cui forma singolare aveva destato la sua curiosità, credette di distinguere il tenue mormorio di una voce umana, e si pose ansioso in ascolto. All'improvviso qualcuno sbucò correndo da un portale dell'edificio in rovina, la spada sguainata alla mano: era Vivaldi in persona. Bonarmo gli andò incontro prontamente; era pallido e senza fiato e dovettero trascorrere alcuni istanti prima ch'egli parlasse, o addirittura udisse le insistenti domande dell'amico.
"Andiamocene", disse Vivaldi, "Lasciamo questo posto!"
"Molto volentieri", rispose Bonarmo, "Ma dove sei stato, e chi hai visto che ti ha sconvolto a tal punto?"
"Non chiedermi altro, andiamo", ripeté Vivaldi.
Discesero insieme la rocca, e allorché Bonarmo, raggiunto l'arco, domandò in parte per scherzo se dovevano rimanere ancora a far la guardia, l'amico rispose "No!" con una veemenza che lo spaventò. S'incamminarono in tutta fretta per la via di Napoli, Bonarmo ostinandosi a ripetere domande cui Vivaldi sembrava riluttante a rispondere, essendo non meno curioso di conoscere il motivo di tale improvviso riserbo che di sapere chi quello avesse visto.
"Allora era il monaco", disse Bonarmo; "L'hai preso infine?"
"Non so cosa devo pensare", rispose Vivaldi, "Sono più confuso che mai."
"Allora ti è sfuggito?"
"Ne discuteremo un'altra volta", fece Vivaldi; "Ma sia come sia, l'affare non finisce qui. Voglio tornare lassù domani notte con una torcia; oserai rischiare assieme a me?"
"Non so", rispose Bonarmo, "Se dovrei farlo, giacché non so a che scopo."
"Non ti costringo a venire", lo assicurò Vivaldi; "Il mio scopo ti è già noto."
"Non hai dunque potuto scoprire chi sia lo straniero, hai ancora dei dubbi riguardo la persona che hai inseguito?"
"Ho dei dubbi che la notte di domani, spero, dissiperà."
"Tutto questo è molto strano!" esclamò Bonarmo, "Soltanto ora sono stato io stesso testimone dell'orrore con cui lasciasti la fortezza di Paluzzi, e già tu parli di ritornarci! E perchè di notte e non invece di giorno, quando minori pericoli ti insidierebbero?"
"Non ne so il motivo", rispose Vivaldi; "Devi considerare che la luce del giorno non penetra mai nei recessi in cui mi sono introdotto; a qualunque ora del giorno o della notte occorre ispezionare il posto con le torce."
"Giacché è così", riprese Bonarmo, "Come facesti a trovare la strada nel buio completo?"
"Ero troppo occupato per sapere dove andavo; mi sentivo come guidato da una mano invisibile."
"Nonostante tutto", osservò Bonarmo, "Dobbiamo approfittare delle ore diurne, se non della luce diurna, ammesso che io ti accompagni. Sarebbe poco meno che una pazzia visitare per due volte un luogo probabilmente infestato da ladroni, e per di più a mezzanotte, l'ora a essi più congeniale."
"Dovrò stare nuovamente di guardia nel solito posto", rispose Vivaldi, "Prima di dar fondo alle mie ultime risorse, e questo non può esser fatto durante il giorno. Inoltre, è necessario che io ci vada a un'ora particolare, l'ora in cui il monaco è sempre apparso fino a questo momento."
"Allora ti è scappato?", fece Bonarmo, "E ignori tuttora chi sia?"
Vivaldi replicò semplicemente chiedendo all'amico se l'avrebbe accompagnato. "Altrimenti", aggiunse, "Devo sperare di trovare un altro compare."
Bonarmo disse che voleva riflettere sulla proposta, e che l'avrebbe informato della sua decisione prima della sera seguente.
Quando la conversazione ebbe termine i due erano arrivati a Napoli, e al cancello di palazzo Vivaldi si separarono per il resto della notte.


Libro Primo, Capitolo Secondo


LIBRO PRIMO

CAPITOLO SECONDO


Olivia:  Oh, cosa vorresti fare?
Viola: Costruirmi una capanna di salici alla tua porta,
e richiamare in essa la mia anima;
scriverti i fedeli versi del mio amore proscritto,
e cantarli a gran voce nel cuore della notte:
urlare il tuo nome alle colline echeggianti,
e far sì che l'etere futile e ciarliero
gridi: Olivia! Oh! Non riposare dunque
tra gli elementi dell'aria e della terra,
ma concedimi la tua pietà.

Shakespeare, "La dodicesima notte"


Poiché Vivaldi non era riuscito a ottenere una spiegazione alle parole del monaco, decise di sottrarsi alla tortura di quella ansiosa incertezza riguardo al suo rivale recandosi a Villa Altieri e palesando le sue aspirazioni. La mattina immediatamente successiva alla sua ultima avventura vi si recò, e avendo chiesto della signora Bianchi gli fu risposto che non era possibile vederla. Con grande difficoltà ebbe ragione della domestica, convincendola a riferire la richiesta di essere ammesso alla presenza della signora per pochi minuti. Questo gli venne concesso, ed egli fu condotto proprio nella stanza in cui aveva precedentemente veduto Elena. Non vi trovò nessuno, ma venne informato che la signora Bianchi lo avrebbe raggiunto subito.
Durante l'attesa Vivaldi si sentì agitato ora da un'acuta impazienza, ora da un piacere entusiastico, mentre posava lo sguardo sull'altare da cui aveva visto Elena alzarsi, e presso il quale ella tuttora appariva alla sua fantasia, e su ogni oggetto che sapeva essere stato carezzato dal suo sguardo.
Tali oggetti, così prossimi a lei, avevano in qualche modo acquistato nell'immaginazione di Vivaldi quel carattere sacro che ella aveva impresso nel suo cuore, e in certa misura ebbero su di lui lo stesso effetto della presenza di Elena. Tremò mentre sollevava il liuto che ella era solita suonare, e toccandone le corde gli parve di sentire il suono della sua stessa voce.
Su di un cavalletto stava poggiato un disegno incompiuto, che raffigurava una ninfa danzante: comprese immediatamente che quelle linee erano state tracciate dalla mano di Elena. Era la copia di una statura di Ercolano, e nonostante non fosse che una copia era pervasa da un geniale spirito di originalità. I passi leggeri sembravano quasi sollevarsi, e l'intera figura ispirava un'aerea leggerezza di straordinaria grazia. Vivaldi constatò che il disegno faceva parte d'una serie che adornava la stanza, e notò con sorpresa che i soggetti ritratti erano i medesimi che aveva visto nel gabinetto del padre, e che, gli era stato detto, erano le sole copie autorizzate degli originali custoditi nel museo reale.
Ogni cosa che gli capitasse sotto gli occhi sembrava manifestare la presenza di Elena, mentre dai fiori che rallegravano e decoravano la stanza emanava un profumo che ammaliò i suoi sensi ed eccitò la sua fantasia. Prima dell'arrivo della signora Bianchi l'ansia e l'apprensione di Vivaldi erano divenute tanto intense che egli, credendosi incapace di controllarsi in sua presenza, fu più di una volta sul punto di fuggire. Infine udì dei passi avanzare nel salone, e il respiro venne quasi a mancargli. La figura della signora Bianchi non era tale da suscitare ammirazione, e un osservatore avrebbe sorriso del turbamento di Vivaldi, del passo incerto e dello sguardo sperduto con cui mosse incontro alla venerabile signora Bianchi, s'inchinò sulla sua mano sbiadita, e stette ad ascoltarne la voce querula. La signora lo accolse con aria riservata, e ci vollero alcuni minuti prima che Vivaldi potesse riprendersi a sufficienza per spiegare lo scopo della sua visita; il quale, del resto, una volta che egli l'ebbe svelato, non parve affatto sorprenderla.
Ascoltava le dichiarazioni del suo riguardo per la nipote con compostezza, sebbene il viso avesse un'espressione piuttosto severa, e allorché Vivaldi la scongiurò di intercedere in suo favore per ottenere la mano di Elena, ella disse: "Non posso ignorare che una famiglia del vostro rango debba avversare un'unione con una come la mia; né sono inconsapevole del fatto che la piena considerazione del valore della nascita sia una caratteristica rimarchevole della natura del marchese e della marchesa di Vivaldi. Questa proposta deve riuscire loro sgradita, o almeno non devono esserne informati; e tengo a precisare, signore, che sebbene il rango della signora di Rosalba sia inferiore a quello della vostra famiglia, il suo orgoglio di certo non lo è."
Vivaldi disdegnava tergiversare, tuttavia, fu sorpreso di sentirsi ricordare la verità tanto bruscamente. D'altra parte, la franchezza con cui infine riconobbe la giustezza delle parole della signora Bianchi, e il vigore della sua passione, troppo eloquente per venire malintesa, addolcirono alquanto l'inquietudine della signora, alla cui mente si affacciarono ora nuove considerazioni. Valutò infatti che la sua età avanzata e i malanni da cui era afflitta avrebbero ben presto, secondo il corso della natura, fatto di Elena una giovane orfana senza amici, ancora in parte dipendente dalla propria operosità, e affidata interamente al suo stesso giudizio. Accompagnandosi tanta bellezza a una così scarsa conoscenza del mondo, i pericoli della sua condizione futura apparvero in piena evidenza all'amorevole signora Bianchi, la quale cominciò a ritenere più opportuno sacrificare certi princìpi, che in altre circostanze sarebbero stati degni di lode, pur di procurare alla nipote la protezione di un marito e di dignità che le impediva di accondiscendere a un'unione clandestina fra Elena e qualunque altra famiglia; e sarebbe stata la sua premurosità materna a salvarla dal biasimo che tale condotta meritava.
Ma prima di decidere a questo proposito era necessario accertarsi che Vivaldi fosse degno della fiducia che avrebbe riposto in lui. Anche per mettere alla prova la costanza dei suoi sentimenti, al momento incoraggiò assai poco le sue speranze. Respinse assolutamente la sua richiesta di vedere Elena, fino a che non avesse ulteriormente vagliato le sue proposte; e quanto alla domanda se egli avesse un rivale, e in caso affermativo se Elena fosse disposta a favorirlo, la signora Bianchi non si pronunciò, sapendo che la sua risposta avrebbe dato adito a speranze che in seguito sarebbe stato arduo scoraggiare.
Infine Vivaldi prese commiato, affiancato sì dalla completa disperazione, ma ancora privo di certezze: non era riuscito ad appurare se davvero avesse un rivale, né se Elena lo onorasse d'una pur minima parte della sua stima.
Aveva ricevuto il permesso di visitare nuovamente la signora Bianchi dopo qualche tempo, ma fino ad allora i giorni gli sarebbero sembrati eterni; e giacché una lunga pausa di sospensione gli riusciva assolutamente insopportabile, mentre camminava sulla via di Napoli votò tutti i suoi pensieri alla ricerca del modo migliore di porvi termine. Arrivò così al famoso portale, dove si guardò intorno, pur senza crederci, alla ricerca del suo tormentatore misterioso. Lo straniero non comparve, e Vivaldi proseguì per la sua strada deciso a tornare sul posto quella notte, nonché a introdursi segretamente all'interno di villa Altieri, dove sperava che una seconda visita gli avrebbe procurato un poco di sollievo dal presente stato di angoscia.
Giunto a casa trovò che il marchese suo padre gli aveva lasciato l'ordine di attendere il suo ritorno: obbedì, ma il giorno trascorse senza che quello fosse tornato. La marchesa, quando lo vide, gli domandò con un'espressione estremamente eloquente in cosa fosse stato impegnato ultimamente, e frustrò tutti i suoi progetti per la sera richiedendogli di assisterla durante un'escursione a Portici. Questo gli impedì di sapere quale decisione avesse preso Bonarmo, di appostarsi sotto Paluzzi, e di visitare nuovamente la residenza di Elena. Rimase a Portici tutta la sera, e al suo ritorno a Napoli il marchese era ancora assente, sicché Vivaldi rimase all'oscuro dell'argomento del quale il padre intendeva parlargli. Un biglietto da parte di Bonarmo gli notificò che questi si rifiutava di accompagnarlo alla fortezza, e lo invitava ad abbandonare un proposito tanto pericoloso. Essendo privo di un compagno d'avventure per quella notte e non volendo andare solo, Vivaldi rimandò a un'altra sera; ma nessuna considerazione poté trattenerlo dal visitare villa Altieri. Non desiderando insistere presso il suo amico chiedendogli di accompagnarlo, visto che quello aveva respinto la sua prima richiesta, prese con sé il liuto e giunse solo al giardino, a un'ora meno tarda del solito.
Il sole era tramontato da un pezzo, ma l'orizzonte ancora conservava una certa brillantezza di zafferano, e l'intera volta celeste aveva la trasparenza caratteristica di quel clima incantevole, stendendo una penombra rassicurante sopra al mondo intero a riposo. A Sud-est la sagoma del Vesuvio si delineava distintamente, ma la montagna era scura e silenziosa.
Vivaldi non udì altro che le grida accese e affrettate di alcuni scugnizzi che litigavano giocando alla morra su una spiaggia lontana. Ma dai graticci ombrosi d'un piccolo padiglione all'interno dell'aranceto giunse ai suoi occhi una luce, e l'improvvisa speranza di vedere Elena, da essa suscitata, quasi lo sopraffece. Gli era impossibile non approfittare dell'opportunità di vederla, tuttavia arrestò i suoi passi impazienti per domandarsi se fosse onorevole introdursi in cotal modo nlla sua intimità, e farsi spettatore insospettato dei suoi segreti pensieri.
Ma la tentazione era troppo forte per la sua titubante onestà.
La pausa non fu che temporanea: avanzando cautamente verso il padiglione si fermò vicino a una finestrella aperta, in modo che i rami di un arancio lo nascondessero consentendogli al contempo di vedere perfettamente l'interno. Elena era sola, seduta in atteggiamento pensoso e tenendo in grembo il liuto, senza però suonarlo. Sembrava essersi astratta dagli oggetti che la circondavano, e il suo viso era pervaso da una tenerezza che gli rivelò come i suoi pensieri fossero occupati da un oggetto di estremo interesse. Rammentando che quando l'aveva vista in tale stato l'ultima volta ella aveva pronunciato il suo nome, le sue speranze risorsero, e stava ormai per uscire dal nascondiglio e gettarsi ai suoi piedi quando Elena cominciò a parlare, e Vivaldi si arrestò.
"Perchè questo insensato orgoglio di nascita!", disse. "Un folle pregiudizio distrugge la nostra serenità. Mai accetterei di entrare in una famiglia riluttante ad accogliermi; si accorgeranno, alla fine, che ho anch'io una preziosa eredità: la nobiltà d'animo. Oh, Vivaldi! Non fosse per questo infausto pregiudizio!..." Vivaldi ascoltava immobile; sembrava in estasi. Il suono del liuto e la voce di Elena lo ridestarono: aveva intonato la prima strofa della medesima aria con cui egli aveva iniziato la sua serenata precedente, esprimendo tutto il dolce pathos che doveva aver ispirato l'autore durante la composizione.
Elena fece una pausa al termine della prima strofa, e Vivaldi, vinto dalla tentazione di cogliere la splendida opportunità di esprimere la propria passione, toccò le corde del suo liuto, e le rispose con la seconda strofa. Il tremore della sua voce, pur limitandone l'intonazione, ne accresceva l'espressività. Elena la riconobbe all'istante: d'un tratto impallidì, per poi arrossire, e prima che il canto fosse giunto alla fine sembrava aver del tutto perduto i sensi. Vivaldi avanzò all'interno del padiglione, e la sua vicinanza la destò: Elena gli fece cenno di indietreggiare, e prima che egli potesse precipitarsi a sorreggerla lei si alzò, e sarebbe fuggita via se Vivaldi non l'avesse fermata implorandola di ascoltarlo solo per un attimo.
"è impossibile", disse Elena.
"Lasciate almeno ch'io sappia che non mi detestate", replicò Vivaldi, "Che questa intrusione non mi priverà della stima che proprio ora voi avete asserito di concedermi..."
"Oh, mai e poi mai!", lo interruppe nervosamente Elena. "Dimenticate che io abbia mai proferito tali parole, dimenticate di averle udite, io non so più cosa dissi."
"Oh, bellissima Elena, credete possibile che io sia in grado di dimenticare? Questa sarà la mia consolazione nelle ore di solitudine, la speranza che mi sosterrà..."
"Non posso trattenermi, signore", lo interruppe nuovamente Elena, ancor più imbarazzata, "Né so perdonarmi per aver permesso questa conversazione."
Ma mentre pronunciava queste ultime parole un involontario sorriso sorse a contraddirne il senso. Vivaldi credette al sorriso piuttosto che alle parole, ma prima che potesse esprimere la fulgida gioia della sua certezza, Elena aveva lasciato il padiglione. Vivaldi la inseguì per il giardino: ma ormai era scomparsa.
Da quel momento Vivaldi si sentì come rinato a una nuova esistenza. Il mondo intero gli sembrava il Paradiso: quel sorriso gli si era impresso nel cuore per sempre. Nella pienezza della presente felicità gli pareva impossibile tornare un giorno a essere triste, e sfidava qualunque maligna insidia il futuro avesse in serbo per lui. A passi leggeri come l'aria ritornò a Napoli e lungo la via neppure una volta si ricordò di cercare il suo vecchio ammonitore.
Il marchese e la madre erano fuori casa, cosicché egli ebbe agio di soffermarsi sui ricordi incantati che gli empivano l'animo, e dai quali non tollerava di staccarsi neppure per un istante. Tutta la notte si aggirò per il suo appartamento, preda di un'agitazione pari a quella che in precedenza gli aveva inflitto l'ansia; vergava lettere per Elena che poi distruggeva, temendo a volte d'aver scritto troppo, altre volte d'aver scritto troppo poco.
Gli sovvenivano certe circostanze che aveva dimenticato di menzionare, e si rammaricava delle fredde parole alle quali affidava sentimenti che nessun linguaggio sembrava in grado di esprimere adeguatamente.
Per l'ora in cui si svegliarono i domestici aveva comunque completato una lettera che pareva soddisfarlo, e la spedì a villa Altieri tramite una persona di fiducia. Ma non appena il servitore ebbe varcato il cancello gli sovvennero nuovi argomenti che desiderava aggiungere, e nuove formulazioni della massima importanza che avrebbero reso più efficacemente la sua idea, e avrebbe rinunciato a mezzo mondo pur di poter richiamare il messaggero.
In tale stato d'agitazione fu chiamato a presentarsi al marchese, il quale era stato ultimamente troppo impegnato per rispettare il suo stesso appuntamento. Vivaldi non rimase a lungo all'oscuro del motivo di tale incontro.
"Desideravo parlarti", cominciò il marchese assumendo un'aria accigliata e severa, "Di una questione della massima importanza per il tuo onore e la tua felicità; e vorrei inoltre darti modo di smentire una voce che mi avrebbe causato un disagio considerevole, se avessi potuto credervi. Fortunatamente ho troppa fiducia in mio figlio per darvi credito, e sostengo che questi conosce troppo bene quel che è dovuto sia alla sua famiglia che a se stesso per compiere alcuna azione che deroghi alla dignità dell'una e dell'altro. La presente conversazione, pertanto, ha come unico fine di offrirti l'occasione di refutare la calunnia di cui dirò, e di mettermi in condizione di contraddirla presso coloro che me l'hanno comunicata."
Vivaldi attese impaziente la conclusione di questo esordio, quindi pregò il padre di informarlo del contenuto di tali voci.
"Si dice", riprese il marchese, "Che vi è una giovane donna, il cui nome è Elena Rosalba... mi pare che così si chiami; conosci nessuna donna con questo nome?"
"Se la conosco!", esclamò Vivaldi, "Ma perdonatemi procedete pure, mio signore."
Il marchese si arrestò guardando il figlio con durezza, ma senza mostrarsi sorpreso. "Si dice che una giovane donna con questo nome abbia messo in opera degli artifizi al fine di ammaliare i tuoi sentimenti, e..."
"è assolutamente vero, mio signore, che la signora Rosalba ha conquistato i miei sentimenti", lo interruppe Vivaldi con prontezza, "Ma senza ricorrere ad alcun artifizio."
"Desidero non essere interrotto", disse il marchese, interrompendolo a sua volta. "Si dice che costei abbia così abilmente adattato il suo carattere al tuo, che, con l'aiuto di una parente che vive con lei, ti ha ridotto alla degradante condizione di un ossequioso corteggiatore."
"La signora Rosalba, mio signore, mi ha elevato all'onore di essere suo corteggiatore", disse Vivaldi, ormai incapace di contenere la sua passione. Stava per continuare quando il marchese lo fermò bruscamente: "Riconosci la tua follia, dunque!"
"Mio signore, mi vanto della mia scelta."
"Giovanotto", ribatté il padre, "Giacché tali sono l'arroganza e l'entusiasmo romantico d'un ragazzo, per una volta voglio perdonarti, ma fa' attenzione: solo per una volta. Se riconosci il tuo errore, allontana all'istante questa nuova favorita..."
"Mio signore!"
"Devi allontanarla all'istante", ripeté il marchese ancora più inflessibile; "E per provarti come io sia più misericordioso che giusto, sono disposto a queste condizioni a concederle una piccola rendita annuale per riparare in parte alla condizione depravata nella quale tu hai contribuito a precipitarla."
"Mio signore!" esclamò Vivaldi atterrito, quasi incapace di proferir verbo, "Mio signore!... depravata?", e respirando a fatica. "Chi ha osato insudiciare la sua immacolata reputazione insultando le vostre orecchie con queste infami falsità? Ditemelo, vi scongiuro, ditemelo immediatamente, che io possa affrettarmi a dargli quel che si merita. Depravata!... rendita annuale... una rendita annuale! Oh, Elena! Elena!" Mentre pronunciava quel nome lacrime di tenerezza si mescolarono ad altre, provocate dall'indignazione.
"Giovanotto", disse il marchese, che aveva osservato la violenza delle sue emozioni con grave disappunto e preoccupazione, "Io non presto fede a certe voci a cuor leggero, e non potrei sopportare di dubitare io stesso della verità di ciò che ho detto. Tu sei stato ingannato, e la tua vanità prolungherà l'inganno se non accondiscenderò a esercitare la mia autorità, strappando il velo dai tuoi occhi. Allontanala all'istante, e io addurrò prove della sua condotta precedente che faranno vacillare persino la tua fede, per quanto entusiastica essa sia."
"Allontanarla!", ripeté Vivaldi con una fermezza pacata ma austera quale il padre non gli aveva mai visto assumere; "Mio signore, voi non avete mai dubitato della mia parola, e ora io vi do in pegno la mia parola onorevole che Elena è innocente. Innocente! Oh cielo, che sia necessario affermarlo, e soprattutto, che sia necessario difenderla!"
"Devo certamente rammaricarmi che lo sia", rispose il marchese freddamente. "Mi hai dato la tua parola, che non posso porre in questione. Sono convinto perciò che tu sia in errore, che tu la creda virtuosa, nonostante le tue visite nottetempo alla sua casa. E mettiamo che lo sia, povero ragazzo! quale riparazione puoi offrirle per la folle infatuazione che ha così macchiato il suo onore? Quale..."
"Annunciando al mondo, mio signore, che ella è degna di essere mia sposa", rispose Vivaldi, con un bagliore sul volto che rivelava il coraggio e l'esultanza di un animo virtuso.
"Tua sposa!", disse il marchese in tono di ineffabile sdegno, cui successe di colpo un'irata preoccupazione.
"Se credessi che a tal punto tu vuoi dimenticare quel che è dovuto all'onore della tua casa, ti disconoscerei per sempre come mio figlio."
"Oh! Perchè", fece Vivaldi agitato da passioni contrastanti, "Perchè dovrei essere accusato di dimenticare cosa sia dovuto a un padre, quando sto soltanto asserendo cosa è dovuto all'innocenza, quando prendo le difese di una giovane donna che non ha chi possa difenderla! Perchè non mi si concede di conciliare doveri tanti affini! Ma, accada quel che accada, difenderò chi è oppresso, e mi vanterò della virtù che insegna come sia questo il primo dovere dell'uomo. Sì, mio signore, se così deve essere, sono pronto a sacrificare doveri inferiori per la gloria di un principio che dovrebbe gonfiare i cuori e governare le azioni di noi tutti. E terrò fede nel migliore dei modi all'onore della mia casa rispettandone i decreti."
"Qual'è questo principio", ribatté adirato il marchese, "Che ti insegna a disobbedire a tuo padre; qual'è questa virtù che ti induce a degradare la tua famiglia?"
"Non può esservi degradazione, mio signore, dove non vi è peccato", rispose Vivaldi; "E vi sono casi, perdonatemi mio signore, vi sono alcuni casi nei quali è virtuoso disobbedire."
"Questa moralità paradossale", disse il marchese con disgusto, "E questo linguaggio romantico mi lasciano bene intendere quale sia il carattere dei tuoi compari, e quale l'innocenza di colei che difendi in tono tanto cavalleresco. Non lo sai, Signor di Vivaldi, che tu appartieni alla tua famiglia, non la tua famiglia a te; che tu non sei che il custode del suo onore, e non hai la facoltà di disporre di te stesso? La mia pazienza non tollererà oltre!"
Né poteva la pazienza di Vivaldi tollerare tale ripetuto assalto contro l'onore di Elena. Ma pur seguitando a protestarne l'innocenza, egli curò di farlo in tono più conveniente al cospetto d'un padre; e sebbene conservasse la sua indipendenza di uomo, era ugualmente preoccupato a non violare i suoi doveri di figlio. Sfortunatamente il marchese e Vivaldi avevano opinioni differenti, quanto ai limiti di questi doveri: il primo li estendeva all'obbedienza passiva, mentre il secondo riteneva che essi cessassero quando entrava in gioco la felicità dell'individuo, come nel matrimonio. Si separarono irritati l'uno contro l'altro. Vivaldi non riuscì a indurre il padre a rivelare il nome dell'infame informatore, o a riconoscersi convinto dell'innocenza di Elena; parimenti il marchese non ebbe successo nei suoi tentativi di ottenere dal figlio la promessa che non avrebbe mai più visto quella donna.
Ecco dunque Vivaldi, che solo poche ore prima aveva provato una beatitudine suprema in grado di cancellare tutte le esperienze passate e annientare qualunque considerazione per il futuro: una gioia così intensa da persuaderlo a non credere di dover provare nuovamente l'amarezza dell'infelicità; lui che aveva sentito quel momento come una sorta di eternità che lo rendeva libero da ogni debito verso il mondo, proprio lui era così facilmente ricaduto nella regione del tempo e della sofferenza.
Era preda di un conflitto di passioni senza fine. Amava suo padre, e sarebbe stato il primo a rammaricarsi della contrarietà che egli stesso gli causava, non si fosse risentito del disprezzo che quello aveva dimostrato nei confronti di Elena. Adorava Elena, e mentre era consapevole dell'impossibilità di rinunciare alle proprie esperienze, era ugualmente indignato per le calunnie che ne oscuravano il nome, e impaziente di vendicare l'insulto nei confronti di chi per primo l'aveva calunniata.
Sebbene il rifiuto del padre in relazione al matrimonio con Elena fosse stato da lui previsto, il confronto con quella realtà era più arduo e doloroso di quanto avesse immaginato: l'offesa arrecata a Elena era invece tanto inaspettata quanto intollerabile. Ma questa circostanza gli fornì un ulteriore motivo per conferire con lei; giacché se l'amore poteva anche aspettare, il suo onore sembrava ora chiamato a rispondere per lei: e avendo da parte sua contribuito a macchiare la reputazione di Elena, era suo dovere riparare. Dando prontamente ascolto al dettato di una morale tanto plausibile, decise di perseverare nel suo primo intento. Ma dapprima i suoi sforzi furono indirizzati a scoprire il calunniatore, e ricordando le sorprendenti parole del marchese, il quale aveva ammesso di essere informato delle sue visite serali a villa Altieri, credette di trovare una spiegazione nei dubbi avvertimenti del monaco. Giudicò che quest'uomo doveva essere al contempo la spia dei suoi movimenti e il diffamatore di colei che amava, ma poi la discrepanza fra una tale condotta e l'evidente benignità dei suoi moniti balenò agli occhi di Vivaldi, costringendolo a credere il contrario.
Frattanto il cuore di Elena era non meno agitato. Si dibatteva fra amore e orgoglio: sebbene, qualora Elena fosse stata a parte delle circostanze dell'ultimo colloquio fra il marchese e Vivaldi, l'incertezza sarebbe svanita, e un giusto riguardo per la propria dignità l'avrebbe immediatamente indotta a domare, senza esitazione, quella passione appena nata.
La signora Bianchi aveva informato la nipote del motivo della visita di Vivaldi, attenuando in verità gli aspetti sgradevoli della sua proposta. Aveva in principio semplicemente accennato al fatto che a suo avviso non era da supporre che la famiglia di Vivaldi approvasse un legame con una famiglia tanto inferiore, per rango, quanto la sua, Elena, preoccupata da tale allusione, rispose alla zia che dal momento che lo credeva aveva fatto bene a rifiutare la proposta di Vivaldi; ma il sospiro che accompagnò tali parole non sfuggì all'attenzione della signora Bianchi, che si arrischiò ad aggiungere di non aver respinto del tutto le sue offerte.
Nel corso di questa e di successive conversazioni Elena si compiacque di vedere la propria ammirazione segreta sanzionata dalla autorevole approvazione della zia, che era incline a credere che le circostanze che avevano allarmato il suo giusto orgoglio non fossero poi così umilianti come aveva inizialmente immaginato,
La signora Bianchi da parte sua curò di non manifestare le considerazioni che l'avevano indotta a dare ascolto a Vivaldi, essendo certa che esse non avrebbero avuto alcun peso per Elena: il cuore generoso e la mente inesperta di quest'ultima si sarebbero ribellati a ogni tentativo di tirare in ballo motivi di interesse in un affare sacro quanto il matrimonio. 
Quando però, dopo aver nuovamente riflettuto sui vantaggi che quella unione avrebbe procurato alla nipote, la signora Bianchi decise di assecondare i propositi di Vivaldi e di indirizzare il pensiero di Elena, i cui sentimenti erano erano già dalla sua parte, trovò che le opinioni della nipote erano assai meno malleabili del previsto. Elena era spaventata dall'idea di entrare clandestinamente nella famiglia di Vivaldi.
Ma la signora Bianchi, la cui infermità incalzava i suoi stessi desideri, era a questo punto talmente persuasa della prudenza di quella sistemazione per la nipote che si prefisse di vincerne la riluttanza, pur essendo consapevole del fatto che ciò che richiedeva metodi più graduali e persuasivi di quanto non avesse ritenuto necessario. La sera in cui Vivaldi aveva sorpreso Elena dar voce ai propri sentimenti, l'imbarazzo e l'irritazione della giovane, allorché era tornata a casa a raccontare l'accaduto, avevano mostrato con sufficiente chiarezza alla signora Bianchi la condizione del suo cuore. E quando, la mattina seguente, giunse la lettera di Vivaldi, scritta con la semplicità e il vigore della verità, la zia non tralasciò di adeguare i suoi commenti all'umore di Elena, pur conservando il suo tono abituale. 
Vivaldi, dopo il colloquio con il marchese, trascorse il resto della giornata a elaborare diversi piani che gli consentissero
di scoprire chi fosse colui che aveva oltreggiato la fiducia del padre. La sera tornò ancora una volta a villa Altieri, non di nascosto a cantare la serenata sotto il buio balcone della sua amata, ma separatamente e per conversare con la signora Bianchi, la quale lo accolse stavolta con maggiore cortesia che nella sua visita precedente. Attribuendo l'ansia dipinta sul suo volto all'incertezza circa la disposizione della nipote, non ne fu né sorpresa né offesa, ma tentò di sollevarlo in parte incoraggiandolo a sperare. Vivaldi temeva che la signora gli domandasse ancora delle opinioni della sua famiglia, ma a questo riguardo ella evitò l'imbarazzo sia a lui che a se stessa: e al termine di una lunga conversazione Vivaldi lasciò villa Altieri col cuore un poco rassicurato dalla sua approvazione, e alleggerito dalla speranza, pur non avendo ottenuto di vedere Elena. Quanto a quest'ultima, il modo in cui aveva tradito i propri sentimenti la sera precedente, assieme alle notizie giuntele a proposito della famiglia di lui, avevano prodotto sul suo animo un effetto troppo profondo per permettere un nuovo incontro. Subito dopo il ritorno a Napoli di Vivaldi, la marchesa, che quella sera era stranamente libera da impegni, lo mandò a chiamare nel proprio gabinetto. Qui si ripeté la scena del colloquio con il padre, eccetto che la marchese fu più destra nelle sue domande, e più scaltra nel suo atteggiamento generale: mentre Vivaldi non trascese neppure per un istante la buona creanza dovuta a una scelta, fu meno veemente del marchese nelle sue osservazioni e minacce, forse soltanto perchè nutriva maggiori speranze di quest'ultimo di impedire il danno che stava per compiersi. Vivaldi la lasciò senza che i suoi argomenti l'avessero convinto, né le sue profezie domato, né i suoi piani impensierito. Non si preoccupava troppo perché non conosceva abbastanza il carattere della madre per indovinarne i propositi. Disperando di realizzare questi per mezzo della nuda forza, la marchesa ricorse a un assistente dal talento non comune, la cui natura e mentalità ben si addattavano a farne un valido strumento nelle sue mani. Era forse la bassezza del suo stesso cuore, non certo la profondità del pensiero o l'acume del discernimento a porre la marchesa in condizione di comprendere il carattere di costui: carattere che ella risolse di modellare in maniera rispondente ai propri fini.
Viveva nel convento domenicano di Santo Spirito a Napoli un uomo chiamato padre Schedoni: un italiano, come indicava il nome,la cui famiglia era però sconosciuta, anzi da alcune circostanze pareva che egli desiderasse coprire di un velo impenetrabile le proprie origini.    
Quali ne fossero le ragioni, non lo si udì mai accennare a un parente, o al luogo in cui era nato ed era solito eludere con abilità qualunque domanda gli venisse rivolta a tale riguardo, come occasionalmente avveniva per la curiosità dei suoi compagni. Vi erano del resto certi fatti che sembravano indicarlo come un uomo di nobile nascita ma di sostanze decadute; il suo spirito, che talvolta emergeva dietro la mascheratura dei modi esteriori, appariva altero, pur non dando prova delle aspirazioni di un animo generoso, ma piuttosto del cupo orgoglio generato dalla delusione. Alcune persone del convento, incuriosite dal suo aspetto, credevano che le stranezze dei suoi modi, l’austero riserbo e il silenzio impenetrabile, l’abitudine di stare da solo e le frequenti penitenze, fossero l’effetto di qualche sciagura che tormentava il suo spirito inquieto e altezzoso; altri invece ne facevano la conseguenza di un orrendo crimine che rosicava la sua coscienza ravveduta.
A volte si appartava per giornate intere dalla sua confraternita. Quando poi era costretto a riunirsi insieme agli altri, pareva non sapere dove si trovasse e continuava a rinchiudersi nel silenzio e nella meditazione finché non era di nuovo solo. Nonostante i suoi movimenti fossero stati spiati e i suoi ritiri abituali esaminati, certe volte non si sapeva il luogo dove si era appartato. Nessuno lo aveva mai sentito lamentarsi. I fratelli più anziani del convento
sostenevano che egli possedesse del talento, ma non gli riconoscevano alcuna erudizione. Lo apprezzavano per il profondo acume dimostrato in occasione di varie discussioni, ma osservavano che quando la verità stava in superficie raramente riusciva a inseguirla attraverso gli intricati labirinti della disquisizione, ma se la lasciava sfuggire quando gli si presentava senza travestimenti. In effetti poco gli importava della verità, né la ricercava per mezzo di ragionamenti lineari e universali, ma amava esercitare la scaltrezza e la malizia del suo ingegno, inseguendola attraverso artificiose complicazioni.
Alla fine, abituata all’intrigo e al sospetto, la sua mente contorta non riusciva a prendere per vero ciò che era semplice e    
di facile comprensione. Nessuno dei suoi confratelli lo amava, molti lo detestavano e più ancora lo temevano. La sua figura colpiva, e non certo per la grazia. Era alto, e, nonostante fosse molto magro, le sue membra erano grosse e sgraziate. Quando camminava avvolto nella tonaca nera del suo ordine c’era qualcosa di terribile in lui, quasi di sovrumano. Anche la tonaca, velando di un’ombra il livido pallore del volto, accresceva la severità del suo carattere e conferiva un’aria pressoché orribile al suo sguardo malinconico.
Non si trattava neppure della malinconia di un cuore sensibile e ferito, ma della tetraggine propria di una natura feroce.
C’era qualcosa di molto strano nella sua fisionomia, e non facilmente definibili. Recava i segni di numerose passioni che sembravano rimaste impresse sulle fattezze di un viso che avevano cessato di animare. Tristezza e austerità regnavano costantemente fra le profonde pieghe del suo volto. I suoi occhi erano così penetranti che parevano incunearsi al primo sguardo fin dentro al cuore degli uomini e leggervi i pensieri più segreti. Pochi riuscivano a reggere quegli occhi indagatori o a sopportare d’incontrarli una seconda volta. Eppure, nonostante tutta la sua cupezza e la sua austerità, in alcune rare occasioni il suo viso assumeva un’espressione completamente diversa. Sapeva adattarsi con straordinaria facilità alla mentalità e agli umori delle persone che voleva accattivarsi, e in genere ci riusciva perfettamente. Questo monaco, questo Schedoni, era il Confessore e il consigliere privato della marchesa Vivaldi. Quando scoprì che il figlio progettava il matrimonio, sotto l’impulso iniziale dell’orgoglio e dell’indignazione, la donna consultò il monaco su come impedirlo e vide ben presto che l’ingegno di quell’uomo soddisfaceva i suoi desideri. Ciascuno dei due poteva essere di grande aiuto all’altro. Schedoni era sagace e ambizioso, la marchesa orgogliosissima e aveva influenza a corte. L’uno sperava con i suoi servizi di ottenere un grande beneficio, l’altra con le sue concessioni di salvare l’illusoria dignità della casata. Mossi da queste passioni e allettati da queste prospettive concordarono in segreto, senza farlo sapere nemmeno al marchese, come realizzare il loro comune intento. Vivaldi incontrò Schedoni nel corridoio che portava al salottino della madre. Sapeva che era il suo Confessore e non fu molto sorpreso nel vederlo, anche se l’ora era insolita.    
Schedoni passando chinò la testa e assunse un’aria mite e pia, ma Vivaldi, osservandolo con uno sguardo penetrante, sussultò preso da un’involontaria emozione, come assalito dal raggelante presentimento di ciò che il monaco aveva in serbo per lui.


Libro Primo, Capitolo Terzo


LIBRO PRIMO
CAPITOLO TERZO



...Sei tu una cosa?
Sei tu un Dio, un Angelo, o un Diavolo
che mi fai congelare il sangue e rizzare i capelli?
Parla, dimmi che cosa sei.

Shakespeare, "Giulio Cesare"


Dopo l'ultima visita ad Altieri, Vivaldi divenne assiduo frequentatore della signora Bianchi, ed Elena fu infine convinta a unirsi a loro. La conversazione si teneva su argomenti generali. La signora Bianchi, considerando le disposizioni d'animo della nipote e l'intelligenza e l'educazione di Vivaldi, ritenne che egli avesse maggiori probabilità di successo ricorrendo a silenziose attenzioni piuttosto che non dichiarando formalmente i propri sentimenti. Una tale dichiarazione avrebbe potuto spaventare Elena, fintanto che il suo cuore non fosse stato più devoto all'amore di Vivaldi, e indurla a respingerne la corte: cosa che diveniva ogni giorno meno verosimile, sempre che gli venisse data occasione di conversare con lei.
La signora Bianchi aveva comunicato a Vivaldi che non c'era alcun rivale da temere, che Elena aveva regolarmente allontanato tutti gli ammiratori che fino ad allora avevano osato disturbarla nella quiete delle sue stanze, e che il presente riserbo derivava più dalla consapevolezza delle opinioni della famiglia di Vivaldi che dalla disapprovazione della sua condotta. Egli si astenne pertanto dal presentare la sua richiesta fin quando non avesse conquistato più a fondo il suo interesse. Quest'ultima speranza veniva incoraggiata dalla signora Bianchi, le cui maniere cortesi si facevano giorno dopo giorno più compiacenti e persuasive.
Passarono in tal modo parecchie settimane, finché Elena, cedendo alle istanze della signora Bianchi e alla voce del proprio cuore, accettò di riconoscere Vivaldi quale suo spasimante, e il punto di vista della famiglia di quest'ultimo non venne più tirato in ballo, se non con la speranza che considerazioni più urgenti sarebbero infine prevalse.
I due amanti, con la signora Beatrice e un certo signor Giotto, un lontano parente, si concedevano frequenti gite negli splendidi dintorni di Napoli. Vivaldi non si preoccupava ormai di tenere nascosta la sua devozione, anzi desiderava contraddire le voci che offendevano la sua amata rendendo pubblico il suo intento. La considerazione che l'onorabilità di Elena era già stata danneggiata dall'imprudenza dello stesso Vivaldi contribuiva, assieme all'inconsapevole innocenza e alla dolcezza delle maniere di Elena nei suoi confronti - lui che era stato la causa di quelle ingiurie - a infondere una delicata compassione al suo amore così da cancellare dalla sua mente gli affari di famiglia e legare indissolubilmente Elena al suo cuore.
A volte andavano in gita a Pozzuoli, a Baia, o alla boscosa costiera di Posillipo, e quando tornavano costeggiando il golfo illuminato dalla Luna, la melodia delle canzoni italiane sembrava conferire un dolce incanto allo scenario delle spiagge. Nella frescura della sera udivano spesso voci di vignaiuoli intonare trii, mentre cercavano refrigerio all'ombra dei pioppi su uno degli ameni promontori, dopo una giornata di fatica; oppure un'allegra musica di pescatori, che danzavano a ridosso delle onde più in basso.
Mentre i marinai riposavano appoggiati ai remi, essi ne ascoltavano le voci addolcite dalla gentilezza dell'animo più di quanto non sia possibile in virtù dell'esercizio; o altrimenti osservavano la naturale e aggraziata leggerezza che contraddistingue le danze dei pescatori e dei contadini di Napoli. Spesso, aggirando un promontorio la cui massa boscosa sovrastava il mare lontano, si dispiegavano agli occhi della comitiva magici scenari di bellezza, adornati dai gruppi danzanti lungo la baia antistante, quali nessun pittore saprebbe ricreare. Le acque chiare e profonde che riflettevano le varie forme del paesaggio; la costiera delle fessure selvagge, coronata da boschetti che sovente spandevano le foglie increspate lungo la scoscesa con effetto pittoresco e lussureggiante; e le rovine di una villa arroccata fra picchi arditi che facevano capolino in mezzo agli alberi; le baracche dei contadini sospeso sui precipizi, e le figure danzanti sulla spiaggia: tutto questo appariva loro velato dalla tinta argentea e dalle soffici ombre del chiaro di Luna.
Dall'altra parte, il tremolio del mare percorso da una lunga linea splendente, e nella tersa lontananza le vele delle navi in fuga in tutte le direzioni sulla sua superficie, offrivano uno spettacolo tanto grandioso quanto meraviglioso era il paesaggio.
Una sera in cui Vivaldi sedeva con Elena e la signora Bianchi nello stesso padiglione in cui aveva potuto ascoltare quel breve ma significativo colloquio che lo aveva reso certo della stima di Elena, egli insisté con maggiore premura del solito in favore di un matrimonio a breve termine. La signora Bianchi non contrastò le sue argomentazioni; da qualche giorno non stava bene, e credendo di essere ormai prossima al declino era ansiosa di vedere celebrate le nozze. Guardò con gli occhi languidi la scena che si apriva dinanzi al padiglione. L'intenso fulgore che il sole al tramonto calava sul mare mostrava innumerevoli navicelle gaiamente dipinte e barche da pesca che da Santa Lucia rientravano nel porto di Napoli: ma ciò non era più in grado di rasserenarla. Anche la torre romana sulla punta del molo lontano, baciata da raggi obliqui, e le sagome dei pescatori sdraiati nell'ombra allungata sotto le sue mura a fumare oppure in piedi sulla sabbia al sole, in attesa dell'arrivo delle barche dei loro amici, componevano un quadro che ormai non aveva per lei alcun interesse.
"Ahimé!", disse, rompendo un silenzio pensoso, "Questo sole così glorioso che accende tutti i diversi colori delle spiagge, e il chiarore delle montagne maestose, ahimé! Sento non brilleranno a lungo per me... i miei occhi si chiuderanno a questa veduta per sempre!"
Al tenero rimprovero di Elena per il malinconico presentimento la signora Bianchi rispose solo esprimendo l'ardente desiderio di essere testimone del giorno che avrebbe assicurato a Elena sicurezza e protezione; e aggiunse che questo doveva avvenire presto, perchè poteva non vivere abbastanza a lungo per assistervi. Elena, estremamente colpita sia dal presagio che dalla fine della zia che dal diretto accenno alla sua stessa condizione in presenza di Vivaldi, scoppiò in lacrime, mentre questi, sostenuto dai voti della Signora Bianchi, presentava le sue richieste con maggiore insistenza.
"Non è questo il momento di perdersi in scrupoli e cavilli", disse la signora Bianchi, "Ora che una realtà solenne ci richiama all'ordine. Mia cara ragazza, non maschererò i miei sentimenti: essi mi dicono che non mi resta molto da vivere. Concedimi dunque l'unica richiesta che ho da rivolgerti, e le mie ultime ore troveranno conforto."
Subito dopo, prendendo la mano della nipote, aggiunse: "Senza dubbio sarà una terribile separazione per entrambe; e sarà anche luttuosa, signore", rivolgendosi a Vivaldi, "Poichè ella è stata come una figlia per me, e io ho fiducia d'aver adempiuto ai doveri di una madre nei suoi confronti. Giudicate dunque quale sarà la sua pena quando non vivrò più. Ma sarà vostra cura alleviarla."
Vivaldi guardò Elena, e stava per parlare quando la zia riprese.
"Il mio dolore non sarebbe ora meno acuto, se non credessi d'averla consegnata a un uomo il cui affetto non potrà diminuire, se avessi dovuto costringerla ad accettare la protezione di qualunque marito. A voi, signore, affido l'eredità della mia bambina. Vegliate sul suo futuro, difendetela con la mia stessa premura dagli affanni, e se possibile, dalle sciagure! Avrei ancora molto da dire, ma le forze mi mancano."
Mentre ascoltava questa appassionata esortazione, ben rammentando le offese che Elena aveva già dovuto sopportare per causa sua, dopo le crudeli accuse pronunciate dal marchese, Vivaldi fu preso da una sorta di generosa indignazione, della quale poté a stento nascondere l'origine, cui seguì una tenerezza che quasi lo sciolse in lacrime:  segretamente fece voto di difendere l'onore di Elena e di proteggere la sua pace, sacrificando a tale scopo ogni altra considerazione.
La signora Bianchi, concluso il sermone ripose la mano di Elena fra quelle di Vivaldi, il quale l'accolse con un'emozione che soltanto il suo volto sapeva esprimere, e con solenne fervore alzò gli occhi al cielo e giurò che non avrebbe mai tradito la fiducia così accordatagli, ma che avrebbe vegliato sulla felicità di Elena con la stessa tenerezza, premura e costanza che questa aveva ricevuta dalla zia; da quel momento si considerava legato a lei da vincoli non meno sacri di quelli conferiti dalla Chiesa, e l'avrebbe difesa come sua moglie fino all'ultimo dei suoi giorni. Nel dire questo la sincerità dei suoi sentimenti traspariva dallo slancio del suo contegno.
Elena piangeva ancora, e agitata da diverse preoccupazioni non parlava, ma abbassato il fazzoletto lo guardò tra le lacrime, con un sorriso delicato e affettuoso, timido ma fiducioso, che rivelava le contrastanti emozioni del suo animo e che fece appello al cuore di Vivaldi meglio di qualunque discorso.
Prima di lasciare la villa, Vivaldi conversò ancora con la signora Bianchi, e venne deciso che le nozze sarebbero state celebrate la settimana seguente, sempre che si fosse potuto convincere Elena ad acconsentire tanto in fretta; quando sarebbe tornato l'indomani, avrebbe probabilmente appreso la sua decisione.
Partì per Napoli ancora una volta saltellante di gioia, ma la sua gioia si attenuò quando arrivò a casa e ricevette il messaggio del marchese che chiedeva di vederlo nel suo gabinetto. Vivaldi prevedeva quale sarebbe stato l'argomento di quel colloquio, e obbedì alla convocazione con riluttanza. Trovò il padre tanto assorto nei pensieri da non accorgersi subito della sua presenza. Poi, levati gli occhi da terra, dove scontento e perplessità sembravano trattenerli, egli fissò uno sguardo severo su Vivaldi e disse: "So che persisti nell'indegno proposito da cui ti misi in guardia. Ti ho affidato fino ad ora al tuo stesso giudizio poiché desideravo concederti l'opportunità di ritrarre con buona grazia le dichiarazioni che avesti il coraggio di fare al mio cospetto circa i tuoi principi e le tue intenzioni; ma non per questo le tue azioni sono passate inosservate. Vengo informato che le tue visite alla casa dell'infelice giovane che fu argomento della nostra precedente conversazione sono avvenute con la medesima frequenza di prima, e che la tua infatuazione non è diminuita."
"Se è la signora Rosalba cui Vostra Signoria allude", rispose Vivaldi, "Ella non è affatto infelice, e non ho difficoltà ad ammettere che il mio attaccamento a lei è più sincero che mai. Perchè, padre diletto", aggiunse, contenendo le emozioni suscitate dall'umiliante riferimento a Elena, "Perchè insistete a opporvi alla felicità di vostro figlio, e soprattutto, perchè continuate a pensare ingiustamente di colei che è degna della vostra stima quanto lo è del mio amore?"
"Giacché non sono innamorato", ribatté il marchese, "E l'età della credulità adolescenziale è ormai tramontata per me, la mia mente non si ostina a rifiutare ogni verifica, ma segue prove concrete e accetta la realtà dei fatti."
"Quali sono, mio signore, le prove che vi hanno tanto facilmente convinto?", fece Vivaldi "Chi è che seguita a oltraggiare la vostra fiducia e a rovinare la mia serenità?"
Il marchese rimproverò aspramente il figlio per tali dubbi e domande, e la lunga conversazione che seguì non potè riconciliare né gli interessi né le opinioni di entrambi. Il marchese persisté nelle accuse e nelle minacce, e Vivaldi nella difesa di Elena e nella conferma dei propri sentimenti e delle proprie decisioni.
L'arte della persuasione non poté in alcun modo indurre il marchese a presentare le sue prove o a rivelare il nome del suo informatore; né le intimidazioni poterono impaurire Vivaldi a fargli rinunciare a Elena. I due si lasciarono ciascuno per parte sua insoddisfatto. Il marchese aveva errato in questa occasione nel seguire la sua abituale politica, poiché le sue minacce e accuse avevano suscitato risentimento e indignazione: laddove cortesi e garbate rimostranze avrebbero certamente ridestato la devozione filiale di Vivaldi, e potevano dare origine nel suo animo a un ripensamento. Adesso nessun conflitto di opposti doveri minava la sua fermezza. Non aveva tentennamenti riguardo l'oggetto della sua disputa; considerando anzi il padre come un arrogante oppressore che intendeva privarlo dei suoi più sacri diritti, e che spinto dal proprio interesse e servendosi di un infimo delatore non si peritava di macchiare il nome di persone innocenti e indifesi, Vivaldi non lasciò né pietà né rimorso confondersi all'intenzione di rivendicare la propria indipendenza. Ancor più di prima desiderò contrarre un matrimonio che, credeva, avrebbe messo al sicuro la propria felicità e la reputazione di Elena.
Il giorno dopo, pertanto, tornò a villa Altieri con impazienza ancor maggiore di conoscere l'esito del colloquio tra la signora Bianchi e sua nipote, nonché la data in cui le nozze si sarebbero potute celebrare. Lungo la strada i suoi pensieri erano interamente occupati da Elena, e camminava meccanicamente senza guardare dove andasse, quando la penombra gettata sulla strada dal ben noto portale lo richiamò alla realtà, e in quell'istante una voce attirò la sua attenzione. Era la voce del monaco, la cui figura comparve nuovamente dinanzi a lui. "Non andare a villa Altieri", pronunciò solennamente, "Poiché la morte è in quella casa!"
Prima che Vivaldi potesse riaversi dallo spavento causatogli da questa brusca affermazione e dalla repentina apparizione dello sconosciuto, questi era già scomparso. Era fuggito nell'oscurità, forse rientrando nelle tenebre da cui era così improvvisamente emerso, giacché Vivaldi non lo vide abbandonare il portale. Vivaldi lo inseguì con la voce, scongiurandolo di mostrarsi e domandando chi fosse morto: ma nessuno rispose. Certo che lo straniero non poteva essersi allontanato dall'arco per altra via che quella che si arrampicava alla fortezza, Vivaldi prese a salire gli scalini; ma poi riflettendo che il metodo più sicuro per comprendere il significato di quella terribile frase era recarsi immediatamente a villa Altieri, lasciò le sinistre rovine e si affrettò a raggiungere la villa.
Un osservatore imparziale avrebbe probabilmente interpretato le parole del monaco come un'allusione alla signora Bianchi, il cui cagionevole stato di salute ne rendeva la fine, seppure improvvisa, non imprevista; ma alla mente sconvolta di Vivaldi solo la vita di Elena sembrava in pericolo. I suoi timori, per quanto scarsamente ragionevoli o verosimili, erano la naturale conseguenza del suo fervido affetto: ma erano altresì accompagnati da un presentimento tanto straordinario quanto orribile. Più di una volta credette di sapere che Elena era stata uccisa. La vedeva ferita, sanguinante e prossima alla morte; vedeva il volto cinereo e lo sguardo consunto, abbandonato dal vigore della vita, rivolto pietosamente verso di lui, come implorandolo di salvarla dal destino che la trascinava alla tomba.   
Quando poi giunse al limitare del giardino, le sue membra tremavano di un'orribile apprensione, tanto che dovette fermarsi un momento, incapace di avventurarsi oltre e di scoprire la verità. Infine radunò il proprio coraggio e si mosse: aperto un piccolo cancello di cui recentemente gli erano state date le chiavi, per il fatto che gli risparmiava un notevole tratto della strada verso Napoli, si diresse verso la casa. Tutto attorno era silenzioso e deserto, molte persiane erano chiuse. Egli tentava di dare un significato a ogni minimo particolare, e si sentiva sempre più mancare man mano che avanzava, finché a ormai pochi passi dal portico i suoi timori trovarono conferma. Udì un fievole suono lamentoso provenire all'interno, seguito da alcuni versi di quel solenne e peculiare recitativo che in certe parti d'Italia funge da requiem per un morente. Le voci erano così lontane e tenui che alle sue orecchie giungeva non più di un mormorio; tuttavia senza fermarsi a chiedere notizie egli si precipitò nel portico e bussò forte ai battenti serrati.
Dopo ripetute chiamate comparve Beatrice, la vecchia domestica, la quale prevenne le domande di Vivaldi: "Ahimè, Signore", disse, "Ahimè, che giorno! Chi l'avrebbe immaginato, chi avrebbe potuto pensare a un evento come questo! Soltanto ieri sera voi eravate qui, e... stava bene come sto io in questo momento, chi avrebbe detto che oggi sarebbe morta?".
"Dunque è morta!", esclamò Vivaldi con il cuore in gola; "è morta!", ripeté, barcollando in direzione di uno dei pilastri, su cui si appoggiò per sostenersi. Beatrice, spaventata dalla sua condizione, stava per andare a chiamare aiuto, ma egli le fece cenno di restare. "Quando è morta", le chiese, respirando a fatica, "Come, e dove?"
"Ahimè! Qui nella villa, signore", rispose Beatrice in lacrime; "Chi avrebbe detto che dovevo passare questo triste momento nella mia vita! Speravo di posare in pace le mie povere ossa."
"Cosa ha provocato la sua morte?", la interruppe Vivaldi impaziente "E quando è morta?"
"Verso le due di questa mattina, signore; verso le due. Che giornata infelice, che momento ho passato!"
"Mi sento meglio", disse Vivaldi sollevandosi; conducetemi alla sua camera...devo vederla. Non esitate, fatemi strada".
"Ahimè! Signore, è uno spettacolo spaventoso, perchè volete vederla? Convincetevi, signore, non andate: è uno spettacolo terribile!"
"Fatemi strada", ripeté Vivaldi inflessibile; "Se rifiutate, la troverò da me."
Beatrice, atterrita dal suo aspetto e dai suoi modi, cessò di opporsi chiedendo solo il permesso di andare a informare la padrona del suo arrivo; ma Vivaldi le tenne dietro su per le scale e lungo un corridoio che girava attorno al lato della casa rivolto a ponente, e che lo condusse a un appartamento le cui stanze erano oscurate dalle persiane chiuse.
Le attraversò in direzione di quella ove giaceva il cadavere. Il requiem era terminato, e nessun suono disturbava il pauroso silenzio che regnava nelle stanze deserte. Alla porta dell'ultima sala, dove fu costretto a fermarsi, la sua agitazione crebbe a tal punto che Beatrice, aspettandosi di vederlo crollare a terra da un momento all'altro, si preoccupò di sorreggerlo con le sue deboli forze, ma egli le fece cenno di desistere. Presto si riebbe ed entrò nella camera ardente, la cui solennità lo avrebbe turbato in qualunque altra circostanza: ma il suo animo era allora troppo severamente provato dalla sofferenza per subire l'influenza delle cose esteriori. Avvicinatosi al letto su cui era steso il corpo, alzò gli occhi su una donna in lutto che piangeva accanto ad esso... e vide Elena!, la quale, sorpresa da quell'inaspettato arrivo, e ancor più dalla agitazione di Vivaldi, più volte gliene chiese il motivo. Ma egli non aveva né la forza né la volontà di rendere una spiegazione che avrebbe profondamente ferito il cuore di Elena, dandole a intendere come il medesimo evento che le causava tanta sofferenza fosse fortuitamente motivo di gioia per lui. Non si trattenne a lungo a turbare il raccoglimento del lutto, e impiegò i pochi minuti che ancora si concesse a contenere le proprie emozioni e a confortare Elena.
Lasciata quest'ultima, conversò nuovamente con Beatrice a proposito della morte della signora Bianchi, e apprese che la signora si era ritirata a riposare, la sera precedente, apparentemente nel suo consueto stato di salute. "Era circa l'una di notte, signore", continuò Beatrice, "Fui svegliata nel primo sonno da un rumore nella camera della padrona. è una cosa penosa per me, signore, venire svegliata nel primo sonno, ed ero irritata - Santa Maria perdonami! - per essere stata interrotta! Perciò non mi alzai, ma poggiai di nuovo la testa sul cuscino, e cercai di dormire. Ma in quel momento udii ancora un rumore: ebbene, mi dissi, qualcuno di casa dev'essere in piedi, è sicuro. Non avevo finito di parlare, signore, che sentii la voce della padroncina chiamarmi: "Beatrice!Beatrice!". Ah, povera giovine! Deve essersi preso un bello spavento, e ne aveva ben donde. Dopo un istante era alla mia porta, pallida come la morte, e come tremava! "Beatrice", mi disse, "Alzati subito, la zia sta per morire." Non attese la mia risposta ma se ne andò addirittura. Santa Maria proteggimi! Credetti di svenire sul colpo."
"Va bene, ma la padrona?", disse Vivaldi, la cui pazienza era allo stremo dopo la tediosa circonlocuzione della vecchia Beatrice.
"Oh, la mia povera padrona! Signore, pensavo che non ce l'avrei fatta a raggiungere la sua stanza; e quando ci arrivai ero a mala pena più viva di lei... Giaceva là, sul letto! Oh, che vista penosa! Giaceva là, faceva pena: vidi che stava per morire. Non poteva parlare, anche se ci provava spesso, ma era in sensi, perchè guardava sempre la signora Elena, e poi riprovava a parlare, faceva male al cuore vederla. Sembrava che avesse in animo qualcosa, e provò a rivelarla quasi fino all'ultimo; e quando afferrò la mano della Signora Elena la guardò in viso con un'espressione affranta che nessuno che non abbia un cuore di pietra potrebbe sopportare. La mia povera giovane signora era proprio avvilita, e piangeva come se il cuore le si spezzasse. Povera signorina! Ha davvero perduto un'amica, una come non potrà sperare di averne mai più."
"Ma troverà qualcun altro forte e affezionato come lei!", esclamò con fervore Vivaldi.
"Vogliono i santi che così sia!", rispose Beatrice con un'ombra di dubbio.
"Tutto quello che si poteva fare per la nostra cara signora è stato tentato, ma invano. Non riusciva a ingoiare le medicine che le dava il medico. Era sempre più debole, anche se spesso tirava dei profondi sospiri, e poi mi stringeva forte la mano, ma così forte! Alla fine distolse lo sguardo dalla signora Elena, e gli occhi le si appannarono e rimasero fissi, come se non vedesse più quello che le stava dinanzi. Ahimè! Capii che se ne stava andando; la sua mano non premeva più sulla mia come uno o due minuti prima, ed era gelida come la morte. Anche il viso si trasformò in pochi minuti! Questo accadeva alle due circa: morì prima che il sacerdote potesse confessarla."
Beatrice smise di parlare, e ricominciò a piangere; Vivaldi quasi piangeva con lei, e trascorse del tempo prima che potesse nuovamente dominare la propria voce, e domandare quali fossero stati i sintomi del male della signora Bianchi, e se avesse mai avuto attacchi così improvvisi nel passato.
"Mai, signore!", rispose la vecchia domestica; "E sebbene, a dire il vero, fosse molto malata da tempo, e anzi peggiorasse, si può dire tuttavia..."
"Cosa volete dire?" fece Vivaldi.
"Ecco, signore, io non so cosa pensare della morte della padrona. A dire il vero non v'è nulla di sicuro; e mi si prenderebbe in giro se dicessi apertamente la mia idea, perchè nessuno mi crederebbe, è così strano, ma io devo pur pensare qualcosa, nonostante tutto."
"Parlate chiaramente", disse Vivaldi, "Non avete a temere alcun rimprovero da parte mia."
"Da voi no, signore, ma se la voce dovesse spandersi, e si venisse a sapere che sono stata io a metterla in giro..."
"Per parte mia, non lo rivelerò a nessuno", ribatté Vivaldi con crescente impazienza, "Ditemi senza timore tutto ciò che avete in mente."
"Bene, allora, signore, devo ammettere che non mi piace la morte così improvvisa della padrona, no, né il modo in cui è avvenuta, né il suo aspetto dopo la morte!"
"Parlate esplicitamente, venite al punto", la esortò Vivaldi.
"Vedete, signore, vi è certa gente che non capirebbe neppure a parlare in maniera chiarissima, e sono sicura che le mie parole sono abbastanza chiare. Se posso dirvi la mia idea... io credo che dopo tutto la signora non abbia trovato la morte in modo naturale!"
"Come!", esclamò Vivaldi, "Per quale motivo?"
"Vedete, Signore, ve l'ho già detto: non mi piace la sua morte improvvisa, né il suo aspetto dopo, né..."
"Santo Cielo!" la interruppe Vivaldi, "Alludete al veleno!"
"Piano, signore, piano! Non dico questo; ma non mi pare che sia morta di malattia."
"Chi è venuto alla villa ultimamente?" chiese Vivaldi, con voce tremante.
"Ahimé, signore! Non è venuto nessuno; la padrona viveva così ritirata che non vedeva nessuno."
"Proprio nessuno?", insisté Vivaldi. "Riflettete bene, Beatrice, neppure una visita?"
"Nessuna visita da lungo tempo, ormai, eccetto voi e il cugino, il signor Giotto. L'unica persona che sia venuta fra queste mura nelle ultime settimane, a parte voi, per quel che mi ricordo, è una sorella del convento che viene a prendere le sete ricamate della padroncina."
"Sete ricamate? Quale convento?"
"Quello di Santa Maria della Pietà, laggiù, signore; se vi accostate a questa finestra ve lo mostro. Eccolo là, tra i boschi della collina, proprio in cima ai giardini che scendono verso la spiaggia. Accanto c'è un orto di ulivi, e guardate, signore, là si vede una cresta di rocce rosse e giallastre ancora più alta del bosco, sembra quasi rovinare sulle antiche cime. L'avete trovato, signore?"
"Quanto tempo fa è venuta questa sorella?", riprese Vivaldi.
"Tre settimane almeno, signore."
"E siete certa che nessun altro ha visitato la villa durante questi giorni?"
"Nessun altro, signore, tranne il pescivendolo e il giardiniere, e un uomo che porta maccheroni e altre cose del genere; perchè la strada per Napoli è lunga, signore, e io ho così poco tempo."
"Tre settimane, voi dite! Avete detto tre settimane, vero? Ne siete certa?"
"Tre settimane, signore! Santa Maria della Pietà! Credete, signore, che potevamo restare digiuni per tre settimane! No, sono venuti quasi ogni giorno."
"Parlo della suora", disse Vivaldi.
"Oh, certo, signore", rispose Beatrice, "è tanto almeno che non è più venuta."
"Ciò è strano!" osservò Vivaldi meditabondo, "Ma parlerò con voi un'altra volta. Nel frattempo, vorrei che voi faceste in modo che io veda il volto della vostra defunta padrona senza che la signora Elena lo venga a sapere. E fate attenzione, Beatrice, non fate parola con nessuno delle vostre congetture riguardo la morte della signora Bianchi: non lasciatevi sfuggire nulla che tradisca i vostri sospetti dinanzi alla vostra giovane padrona. Sospetta anche lei nello stesso modo?"
Beatrice rispose che non credeva che la signora Elena avesse dei sospetti; e promise di rispettare fedelmente i suoi ordini.
Vivaldi lasciò allora la villa, meditando sulle circostanze che aveva appena appreso, e sulla profetica ammonizione del monaco. Non poteva evitare di riconoscere un collegamento tra le due cose, e tra esse e la morte improvvisa della signora Bianchi; e gli venne in mente per la prima volta che quel monaco, quel misterioso sconosciuto, altri non fosse che Schedoni, che recentemente aveva visto salire con maggiore frequenza del solito all'appartamento della madre. Quasi sobbalzò per l'orrore dei sospetti conseguenti a tale deduzione, e si precipitò a respingerla, quasi fosse un veleno che avrebbe guastato per sempre la sua tranquillità. Ma nonostante avesse allontanato all'istante il sospetto, quel pensiero gli si riaffacciava alla mente; si sforzò allora di ricordare la voce e l'aspetto dello straniero per paragonarli a quelli del Confessore.
La voce di questo, trovava, era di tono diverso, e la figura dissimile per dimensioni e proporzioni. Il confronto non gli impedì del resto di congetturare che lo straniero fosse uno degli agenti del Confessore, forse colui che di nascosto spiava i suoi movimenti, e che aveva diffamato Elena; ma entrambi, se di due persone si trattava, erano evidentemente agli ordini dei suoi genitori. Furente di indignazione contro gli ignobili artifizi che credeva fossero stati impiegati ai suoi danni, e impaziente di incontrarsi con quel calunniatore, decise che avrebbe preso delle misure energiche per scoprire la verità, o costringendo il Confessore a parlare, o andando a scovare il suo agente, che, immaginava, doveva temporaneamente nascondersi tra le rovine di Paluzzi.
Le persone del convento che Beatrice gli aveva indicato non sfuggirono alle sue riflessioni, ma non vi era alcuna ragione di crederle nemiche della sua Elena, la quale, anzi, come aveva appreso, era da anni in amichevole rapporto con loro. Le sete ricamate di cui aveva parlato la vecchia domestica gettavano luce sufficiente sulla natura di quel rapporto, e la scoperta di quest'ulteriore aspetto della vita di Elena aumentò l'ammirazione e l'affetto che egli le aveva portato fino ad allora.
I particolari sospetti cui Beatrice aveva accennato a proposito della causa del decesso della padrona gli tornavano in mente senza posa; gli sembrava singolare, e a volta altamente improbabile, che ci fosse qualcuno tanto interessato alla morte di quella donna, all'apparenza assolutamente irreprensibile, da somministrarle il veleno. Quale fosse il movente che aveva provocato un gesto così orribile, era ancora più difficile stabilire. Certamente da qualche tempo le sue condizioni erano peggiorate; ma la subitaneità della sua fine e la stranezza di certe circostanze che l'avevano preceduta e di altre che vi avevano fatto seguito costringeva Vivaldi a dubitare. Era certo, comunque, che i suoi dubbi sarebbero svaniti quando avesse esaminato il cadavere: e Beatrice gli aveva promesso che se fosse tornato alla villa di sera, quando Elena già riposava, lo avrebbe introdotto nella camera della defunta. Trovava un poco ripugnante alla sua coscienza visitare, di nascosto o meno, la residenza di Elena in quel momento delicato, ma era necessario che vi conducesse un professore di medicina del cui giudizio potesse fidarsi, per appurare la causa della morte della signora Bianchi. E giacché credeva che prestissimo avrebbe acquisito il diritto di vendicare l'onore di Elena, tale considerazione non lo preoccupò più di quanto sarebbe avvenuto in altro frangente. L'indagine che lo chiamava ad Altieri era, inoltre, di natura troppo grave e importante perchè vi rinunciasse facilmente; aveva perciò assicurato Beatrice che si sarebbe presentato puntualmente all'ora da lei stabilita. Il progetto di dare la caccia al monaco venne nuovamente rimandato.