Libro Primo, Capitolo Primo


LIBRO PRIMO

CAPITOLO PRIMO


Qual è il peccato occulto; quale la storia ignota,
che né artifizio estorce, né penitenza monda?
(La madre misteriosa)


Fu nella chiesa di San Lorenzo a Napoli nell'anno 1758 che Vincenzo di Vivaldi vide per la prima volta Elena Rosalba. La leggiadra e fine intonazione della sua voce avevano attirato l'attenzione di Vivaldi sulla sua figura, circondata da un'aria di squisita delicatezza e di grazia; ma il volto era nascosto dal velo. Tanto l'aveva ammaliato quella voce che in lui crebbe pungente la curiosità di mirare il suo viso, che immaginava dovesse esprimere tutta la sensibilità d'animo rivelata dalle parole da lei pronunciate. Ne ascoltava rapito l'elegante parlata, e a mala pena poté distogliere lo sguardo dalla sua persona prima che il servizio mattutino fosse concluso; allora la vide allontanarsi dalla chiesa assieme a una donna anziana cui porgeva il braccio, e che doveva essere la madre.
Vivaldi immediatamente seguì i loro passi, deciso a vedere in volto Elena, se possibile, e ad appurare dove le due donne abitassero. Camminavano leste, senza guardare né a destra né a sinistra, e quando voltarono per la strada di Toledo Vivaldi le aveva quasi perse di vista; ma accelerato il passo, e rinunciando alla distanza che aveva prudentemente mantenuto fino ad allora, le superò mentre entravano sul Terrazzo Nuovo, che corre lungo il golfo di Napoli in direzione del Gran Corso. Le superò, ma la bella sconosciuta aveva ancora il velo abbassato, ed egli non sapeva come attirare la sua attenzione, né come riuscire a scorgere le sue sembianze che tanto eccitavano la sua curiosità. Si sentiva frenato da una rispettosa timidezza, che si fondeva con l'ammirazione e lo obbligava al silenzio, nonostante desiderasse rivolgerle la parola.
Nel discendere gli ultimi scalini del Terrazzo, comunque, il piede della signora anziana cedette, e mentre Vivaldi si precipitava ad assisterla, la brezza proveniente dal mare afferrò il velo, che Elena non poteva più governare avendo le mani troppo occupate, e sospingendolo parzialmente da un lato dischiuse ai suoi occhi un volto dalla bellezza assai più sconvolgente di quanto avesse osato immaginare. I lineamenti disegnavano un profilo greco, e nonostante esprimessero la tranquillità d'un animo raffinato, gli occhi d'un azzurro scuro brillavano d'intelligenza. Ella soccorreva la propria compagna con tale premura che non si accorse subito dell'ammirazione che aveva destato in Vivaldi; ma nell'istante in cui i suoi occhi incontrarono quelli di lui se ne rese conto, e si affrettò a tirar giù il velo.
La caduta non aveva procurato lesioni gravi alla vecchia signora, ma poichè camminava con difficoltà Vivaldi colse l'occasione che gli si presentò, e insistè perchè accettasse il suo braccio. La donna rifiutò pur con infiniti ringraziamenti; ma lui ripetè l'offerta con tanta insistenza e deferenza, che infine ella accettò, ed essi si avviarono insieme verso la sua abitazione.
Durante il cammino Vivaldi tentò di conversare con Elena, ma non ottenne che risposte laconiche, e giunto alla fine della passeggiata ancora rifletteva su cosa avrebbe potuto dire per interessarla e distoglierla dalla sua austera riservatezza. Dal tipo di abitazione dedusse che si trattava di persone di decorosa benché modesta condizione. La casa era piccola ma dall'aspetto confortevole, e persino di buon gusto. Sorgeva su di un poggio circondato da un giardino e da vigneti che dominavano la città e il golfo di Napoli, un quadro in perenne movimento, ed era sovrastata da un folto boschetto di pini e maestose palme da dattero. Sebbene il piccolo portico e il colonnato antistante fossero di marmo comune, lo stile della costruzione aveva una certa eleganza: mentre offriva riparo dal sole, lasciava spirare i freschi venticelli che salivano dalla baia sottostante, con una veduta dell'intero arco delle sue spiagge incantate.
Vivaldi si arrestò al piccolo cancello che dava nel giardino, ove l'anziana donna ripetè la propria riconoscenza per le sue attenzioni, ma non lo invitò a entrare; ed egli, tremante d'angoscia e delusione, rimase un momento a guardare Elena, incapace di prendere commiato, ma incerto su cosa dire per prolungare l'incontro, finché la signora nuovamente gli augurò buona giornata. Vivaldi allora si fece coraggio abbastanza da chiedere il permesso di tornare a informarsi della sua salute, e ottenuta licenza      con gli occhi disse addio a Elena, la quale, mentre già si allontanava, osò ringraziarlo per la cura con cui aveva soccorso sua zia. Il suono della voce e questa dichiarazione di gratitudine lo resero ancor più riluttante ad andarsene di quanto già non fosse, ma infine egli si strappò via dal cancello. La soavità del volto di Elena occupava la sua fantasia, e i commoventi accenti del suo eloquio ancora gli vibravano nel cuore, mentre scendeva alla spiaggia sotto la villa, compiacendosi di sapersi vicino a lei, nonostante non potesse più vederla; e a volte sperava di scorgerla nuovamente, seppure da lontano, affacciata a un balcone della casa le cui tendine di seta sembravano invitare la brezza del mare. Rimase ora dopo ora disteso sotto i pini ombrosi che stormivano alti sulla spiaggia, oppure, incurante della calura, camminava ai piedi delle rocce che la incoronavano; richiamava alla mente l'incanto del suo sorriso, e pareva ancora ascoltare la dolce melodia della sua voce.
La sera tornò al palazzo del padre, a Napoli, pensoso ma lieto, angosciato ma felice; si soffermava pieno d'una piacevole speranza sul ricordo dei ringraziamenti ricevuti da Elena, senza però neppur pensare a formulare piani circa la sua futura condotta. Tornò giusto in tempo per accompagnare sua madre nella passeggiata serale in carrozza lungo il Corso, ove al passare di ogni gaia carrozza sperava di poter vedere l'oggetto dei suoi pensieri costanti; ma Elena non comparve. Sua madre, la marchesa di Vivaldi, notò la sua apprensione e il suo inconsueto silenzio, e gli pose alcune domande che si augurava gettassero luce sul suo mutato atteggiamento, ma le risposte del figlio non fecero che destare in lei maggiore curiosità, e nonostante si astenesse dall'insistere era probabile che sarebbe ricorsa a metodi più sottili per riproporre i propri quesiti.
Vincenzo di Vivaldi era l'unico figlio del marchese di Vivaldi, nobiluomo discendente da una delle più antiche famiglie del Regno di Napoli, e favorito a corte ove godeva di grande influenza, sicché il suo potere superava il suo stesso rango. Pari all'uno e all'altro era poi l'orgoglio della propria nascita, cui del resto si univa un diverso e più giusto orgoglio: quello di un animo in possesso di saldi principi morali. Essi governavano la sua condotta nelle questioni etiche così come nelle gelose distinzioni di ceto, ed elevavano le sue azioni tanto quanto i suoi giudizi. L'orgoglio era in lui al contempo vizio e virtù, forza e debolezza.
La madre di Vivaldi apparteneva a una famiglia antica quanto quella del padre, ed era egualmente gelosa del proprio lignaggio: ma il suo orgoglio era legato alla nascita e alla distinzione, e non si estendeva alla morale. Donna di passioni violente, altezzosa, vendicativa, nonché astuta e ingannatrice, era paziente nei suoi stratagemmi, e instancabile nel compimento della vendetta contro i malcapitati che osavano provocare il suo risentimento. Amava suo figlio piuttosto in quanto ultimo discendente di due illustri casati, destinato a riunire e sostenere l'onore di entrambi, che per sincero amore materno.
Vincenzo ereditò gran parte del carattere del padre, e assai poco di quello della madre. Il suo orgoglio era nobile e generoso quanto quello del marchese, ma aveva un poco la predisposizione alle passioni selvagge della marchesa, senza però l'astuzia di quest'ultima, la sua ambiguità, o la sua sete di vendetta. Di natura schietta, franco nei sentimenti, si offendeva facilmente, ma subito si quietava; si irritava a ogni minima mancanza di rispetto, per poi addolcirsi dinanzi alle scuse. Un alto senso dell'onore lo rendeva inflessibile di fronte all'offesa, non più di quanto la sua delicata umanità lo predisponesse alla riconciliazione e a condividere i sentimenti degli altri.
Il giorno seguente quello in cui aveva visto Elena, Vivaldi tornò a villa Altieri per approfittare del permesso concessogli di informarsi della salute della signora Bianchi. La prospettiva di vedere Elena lo riempiva di una gioia impaziente, cui si aggiungeva una trepida speranza che lo agitava sempre di più, man mano che si avvicinava alla loro abitazione, finché raggiunto il cancelletto del giardino, fu costretto a fermarsi alcuni istanti per prendere fiato e ridarsi contegno.
Dopo essersi annunciato a una vecchia domestica che era venuta al cancello, venne subito introdotto in un piccolo vestibolo, in cui trovò la signora Bianchi intenta a far gomitoli di seta. Era sola: ma dalla posizione di una sedia sistemata accanto al telaio da ricamo Vivaldi dedusse che Elena se n'era appena andata. La signora Bianchi lo ricevette con riservata cortesia, e parve rispondere assai cautamente alle sue domande a proposito della nipote, che egli sperava a ogni momento di veder comparire. Prolungò la sua visita fino a quando non vi furono più scuse, e avendo esaurito tutti gli argomenti di conversazione, il silenzio della signora Bianchi sembrò annunciargli che ella non aspettava ormai che la sua partenza. Col cuore gonfio di delusione, ottenuto a fatica il solo permesso di tornare a informarsi della salute dell'anziana signora dopo qualche tempo, Vivaldi infine si congedò. Avanzando lungo il giardino si fermò spesso a guardare indietro verso la casa, sperando di intravedere Elena attraverso una persiana, oppure gettava lo sguardo intorno a sé, quasi aspettandosi di vederla salute all'ombra dei platani lussureggianti. Ma la sua ricerca fu sempre vana, ed egli lasciò il luogo col passo lento e pesante di chi è preda dello sconforto.
Il giorno fu impiegato in tentativi di ottenere informazioni riguardo la famiglia di Elena, ma su questo poté procurarsi ben poche notizie interessanti. Gli fu detto che Elena era orfana e viveva sotto la protezione della zia, che la sua famiglia non era mai stata illustre, anzi era decaduta quanto a finanze, e che il suo unico sostegno era questa zia. Ma a Vivaldi non venne riferita una verità che doveva rimanere segreta, che cioè ella contribuiva al sostentamento dell'anziana parente, la cui unica proprietà era il piccolo terreno su cui sorgeva la loro casa, e che trascorreva giornate intere a ricamare la seta, la quale veniva ceduta alle suore di un convento vicino che la rivendevano, con assai grande profitto, alle signore di Napoli in vista alle loro celle. Non immaginava lontanamente che una certa vestaglia, splendida, che aveva visto spesso indossare da sua madre, fosse stata lavorata da Elena, né che alcune copie d'oggetti antichi che adornavano una delle stanzette di palazzo Vivaldi fossero state disegnate dalla sua mano. Se avesse conosciuto tali circostanze, queste avrebbero potuto soltanto aumentare la sua passione, mentre invece sarebbe stato prudente scoraggiarla, essendo tali stesse circostanze prove d'una disparità di condizione che avrebbe certamente indotto la sua famiglia a opporsi a un legame con quella di lei.
Elena poteva tollerare l'indigenza, non il disprezzo: così, per proteggere se stessa dai gretti pregiudizi della gente in mezzo a cui viveva, aveva cautamente tenuta loro nascosta l'operosità che rendeva onore alla sua natura. Non si vergognava della propria povertà, né della industriosa solerzia con cui vi poneva rimedio, ma il suo spirito rifuggiva da quei sorrisi vuoti e da quella condiscendenza umiliante che la prosperità a volte riserva all'indigenza. Non possedeva ancora un animo forte abbastanza, né un'apertura mentale sufficiente a infoderle noncuranza nei confronti dei sogghigni degli sciocchi e dei viziosi, e a gloriarsi della dignità di un'indipendenza virtuosa. Elena era l'unico sostegno della zia durante i suoi anni di declino; si mostrava paziente nel curarne i malanni e nel consolarne le sofferenze, e ricambiava l'amore materno che da questa riceveva con l'affetto d'una figlia. Non aveva mai conosciuto sua madre, avendola perduta durante la prima infanzia, e da quel tempo la signora Bianchi ne aveva preso il posto.
Così viveva Elena Rosalba, innocente e felice nel silenzioso compimento dei suoi doveri, protetta da un velo di riservatezza, allorché per la prima volta vide Vincenzo di Vivaldi. Questi non era un uomo tale da passare inosservato agli sguardi, ed Elena era stata colpita dallo spirito di dignità che traspariva dal suo portamento, e dal suo volto franco, nobile, pervaso da quella speciale espressione che pare manifestare le energie dell'anima. Ma ella era restia ad abbandonarsi a sentimenti più teneri dell'ammirazione, e si sforzò di allontanare l'immagine di Vivaldi dalla sua mente. Tornando a dedicarsi alle usuali occupazioni, tentò di recuperare  quello stato di tranquillità che l'apparizione di Vivaldi aveva in qualche modo interrotto.
Vivaldi, nel frattempo, agitato per la delusione e impaziente di sedare la propria angoscia, dopo aver impiegato gran parte del giorno a raccogliere informazioni che non gli fruttarono altro che dubbi e apprensione, decise di ritornare a villa Altieri quando l'oscurità della sera avrebbe celato i suoi passi, per trarre conforto dalla certezza di trovarsi prossimo all'oggetto dei suoi pensieri, e sperando che il caso potesse favorirlo una volta ancora concedendogli di vedere Elena per un istante, per quanto fugace.
Quella sera la marchesa di Vivaldi offriva un riferimento, e il sospetto destato in lei dall'impazienza del figlio la indusse a trattenerlo accanto a sé fino a ora tarda, incaricandolo di scegliere la musica per l'orchestra, e di curare l'esecuzione di un nuovo pezzo, opera di un compositore che ella stessa aveva portato al successo. Le sue riunioni erano tra le più brillanti e affollate di Napoli, e la nobiltà che era stata convocata al palazzo quella sera si divideva in due fazioni a proposito del valore del genio musicale da lei protetto, e di quello dell'altro candidato alla fama. L'esecuzione di quella serata, si diceva, avrebbe definitivamente deciso a chi spettava la vittoria. Era perciò un' occasione di estrema importanza e motivo di notevole tensione per la marchesa, la quale era altrettanto gelosa della reputazione del suo compositore favorito che dalla propria, sicché lo stato d'animo del figlio non poté assorbire che piccola parte della sua attenzione. Non appena ebbe modo di allontanarsi inosservato, Vivaldi lasciò la riunione, e avvoltosi nel mantello si precipitò a villa Altieri, situata non lontano a occidente della città. La raggiunse attento a non farsi notare, e senza fiato per l'agitazione costeggiò il limitare del giardino; qui, libero dagli obblighi dell'etichetta, sentendosi vicino all'oggetto amato provò i primi brevi momenti di gioia: una gioia tanto squisita quanto la stessa presenza di lei avrebbe potuto ispirargli. Ma questa felicità si attenuò col passare dei minuti e preso egli si sentì solo e abbandonato, come se Elena, alla cui presenza solo un istante prima aveva creduto di trovarsi, gli fosse stata sottratta per sempre. La notte era ormai inoltrata, e giacché dalla casa non proveniva alcuna luce dedusse che tutti erano andati a dormire, e ogni sua speranza di vedere Elena svanì. Sarebbe stato dolce, ad ogni modo, indugiare nelle sue vicinanze: perciò tentò di guadagnarsi l'accesso al giardino, così che potesse accostarsi alla finestra dietro cui, probabilmente, lei riposava. Non fu difficile infilarsi attraverso la densa fila di arbusti e alberi che circondavano il giardino, e presto Vivaldi si ritrovò sotto il portico della villa.
Era quasi mezzanotte, e il silenzio che regnava era blandito, più che interrotto, dal lieve sciabordio delle acque giù nella baia, e dai cupi mormorii del Vesuvio, che a intervalli lasciava in alto sull'orizzonte fiammate improvvise, per poi restituirlo all'oscurità. La maestosità della scena si accordava all'umore del suo animo, ed egli seguì attentamente i rumori intemittenti che giungevano alle sue orecchie come tuoni lontani che brontolavano indistintamente oltre le nuvole. Le pause di silenzio che succedevano a ogni borbottio della montagna, mentre l'attesa era proiettata verso il seguente, empirono la fantasia di Vivaldi in quel frangente di un'apprensione particolare, e assorto nel pensiero egli continuò a mirare il sublime e vago contorno delle spiagge, e il mare, appena visibile sotto l'ombra d'un cielo senza nubi.
Lungo la grigia distesa numerose imbarcazioni proseguivano la loro rotta silenziosa, affidandosi, per superare le acque profonde, alla sola stella polare che brillava d'uno splendore persistente. L'aria era calma, e una brezza risaliva il golfo arrecando una frescura assai frangente e ristoratrice: muoveva appena le cime degli ampi pini che riparavano la villa, senza altro rumore che quello delle onde e i mormorii della montagna lontanissima. A un tratto Vivaldi udì avvicinarsi un coro di voci profonde. Il carattere solenne della nenia attirò la sua attenzione; comprese che si trattava di un requiem, e provò ad appurare da quale direzione provenisse. Si avvicinava, pur restando distante, quindi scomparve nel buio.
Il fatto lo colpì: sapeva come fosse costume in certe contrade d'Italia recitare quella cantilena presso il letto del morente, ma questa volta i cantori funebri sembrava camminassero per la strada, o nell'aria. Riguardo alla cantilena non aveva dubbi, già una volta l'aveva ascoltata in circostanze che rendevano impossibile che la dimenticasse. Ora, mentre ascoltava le modulazioni del coro scemare nella lontananza, un passaggio commovente gli riportò alla mente con chiarezza la divina melodia che aveva udito da Elena nella chiesa di San Lorenzo. Sopraffatto da quel ricordo Vivaldi riprese a camminare, e vagando per il giardino si trovò all'altra estremità della villa. Qui a un tratto gli giunse la voce di Elena in persona che recitava l'inno di mezzanotte alla Vergine: si accompagnava al liuto, che al suo tocco produceva suoni commoventi e delicati. Vivaldi rimase per un momento immobile e in estasi, non osando quasi respirare per non perdere neppure una nota di quel canto tenue e sacro, che sembrava sgorgare da una devozione benedetta. Poi, guardandosi attorno in cerca dell'oggetto della sua ammirazione, scorse attraverso l'ombroso fogliame di una clematide una luce che lo attrasse verso una finestra, e lì apparve Elena. Le persiane erano aperte per permettere alla frescura della notte di entrare, così che potè vedere perfettamente sia lei che la stanza. Elena si stava alzando dal piccolo altare presso cui aveva concluso la funzione; l'ardore della devozione splendeva ancora sul suo viso allorché ella levò lo sguardo, e con compunzione rapita lo rivolse al cielo. Teneva ancora in mano il liuto, ma non più ne risvegliava le corde, e sembrava lontana da ogni cosa la circondasse.
I capelli sottili erano raccolti disordinatamente in una retina di seta, e alcune ciocche che ne erano fuoriuscite giocavano sulla nuca e attorno al suo splendido volto, ora non coperto neppure in parte da alcun velo. Il leggero drappeggio della sua veste, la sua intera figura, l'espressione, l'atteggiamento ne facevano una modella ideale per la statua d'una ninfa greca.
Vivaldi era perplesso e agitato fra il desiderio di afferrare un'opportunità che poteva non ripresentarsi mai più per dichiararle il proprio amore, e il timore di offenderla, introducendosi nella sua intimità a un'ora tanto segreta; ma mentre in tal modo esitava udì Elena sospirare, e quindi, con la dolcezza propria del suo eloquio, pronunciare il suo nome. Nell'ansia tremante con cui attendeva ciò che avrebe fatto seguire alla menzione del suo nome, mosse la clematide che circondava le persiane, ed Elena si voltò verso la finestra: ma Vivaldi era interamente nascosto dal fogliame. Elena allora si accosto alla finestra, e Vivaldi, ormai incapace di contenersi, si mostrò a lei. Ella rimase un istante impietrita, mentre il volto acquistava un pallore cinereo; poi richiusa la persiana con gesto trepido e affrettato, lasciò la stanza. Vivaldi sentì le proprie speranze svanire insieme alla sua immagine.
Dopo essersi soffermato nel giardino per qualche tempo senza scorgere alcuna luce proveniente da altre finestre della casa, e senza udire rumori dietro a esse, prese a malincuore la via di Napoli. Cominciò adesso a porsi alcune domande che avrebbe dovuto sollevare già prima, e a tentare di stabilire per qual motivo ricercasse il rischioso piacere di vedere Elena, dal momento che la famiglia di lei era di condizione tale da rendere impossibile il consenso al matrimonio da parte dei suoi genitori.
Era assorto in mille pensieri a questo riguardo, ora essendo quasi deciso a non vederla mai più, ora rifuggendo da una condotta che lo avrebbe schiantato sotto la violenza della disperazione, quando all'uscita di una buia volta diroccata che si inarcava sopra alla strada i suoi passi s'incrociarono con quelli d'un uomo in abito monacale, il cui volto era celato dal cappuccio ancor più che dall'oscurità. Lo straniero si rivolse a lui chiamandolo per nome e disse: "Signore! I vostri movimenti sono sorvegliati; guardatevi dal visitare nuovamente villa Altieri!" Detto ciò scomparve, prima ancora che Vivaldi potesse rinfoderare la spada che aveva mezzo sguainata, o esigere una spiegazione delle parole che aveva udito. Gridò più volte e ad alta voce scongiurò lo sconosciuto di farsi vedere e rimase a lungo in quei paraggi; ma la visione non riapparve.
Vivaldi arrivò a casa con la mente agitata da questo incidente, e tormentata dalla gelosia cui esso aveva dato origine. Dopo aver vagliato diverse ipotesi, arrivò alla conclusione che l'avvertimento con cui era stato messo in guardia era opera di un rivale, e che il pericolo che lo minacciava veniva dal pugnale della gelosia. Questa convinzione gli rivelò d'un tratto la profondità della sua passione, e l'imprudenza con cui essa era stata prontamente accolta. Tuttavia questa nuova prudenza era tanto lontana dal sopraffare il suo errore che, cedendo alla tortura più deliziosa che avesse mai conosciuto,
si decise, accadesse quel che accadesse, di dichiarare il proprio amore a Elena e di chiedere la sua mano. Giovane infelice, non sapeva in quali sventure l'avrebbe precipitato quella passione!
Una volta giunto a palazzo Vivaldi, apprese che la marchesa, che aveva notato la sua assenza, aveva ripetutamente chiesto di lui, e dato ordini che le venisse riferita l'ora del suo rientro. Si era comunque ritirata a riposare. Il marchese, invece, che aveva accompagnato il Re in gita a una delle ville reali sul golfo, tornò a casa subito dopo Vincenzo, e prima di rientrare nel suo appartamento s'incontrò col figlio, cui lanciò uno sguardo di singolare disappunto, evitando però di dire nulla che ne spiegasse o lasciasse intendere il motivo: e a seguito d'una breve conversazione i due si separarono.    
Vivaldi si chiuse nel suo appartamento a deliberare, se in tal modo è lecito chiamare quella sua discussione interiore, in cui a prevalere era non l'esercizio della facoltà discriminativa, ma un conflitto di passioni. Per parecchie ore percorse la stanza della suite, ora torturato dal ricordo di Elena, ora infiammandosi di gelosia, ora preoccupato dalle conseguenze del passo imprudente che stava per compiere. Conosceva a sufficienza il carattere del padre, e certi tratti di quello della madre, per temere che il loro dispiacere in riguardo a quel matrimonio sarebbe stato irrimediabile; d'altro canto, quando considerava che era il loro unico figlio, si sentiva più incline ad ammettere una speranza di perdono, nonostante il fatto che le circostanze avrebbero certamente aumentato il loro disappunto. Queste riflessioni venivano poi frequentemente interrotte dal timore che Elena avesse già destinato il suo affetto al presunto rivale. Ad ogni modo, egli si consolava in parte riandando a quel sospiro e alla tenerezza con cui ella aveva subito dopo pronunciato il suo nome. Ma se anche Elena non fosse stata contraria alla sua dichiarazione, come avrebbe potuto lui domandare la sua mano, e sperare che gli venisse concessa, quando aveva specificato che tutto doveva avvenire in segreto? Non osava credere che ella avrebbe consentito a entrare a far parte di una famiglia che disdegnava di accoglierla: sicché nuovamente veniva sopraffatto dallo sconforto.
La mattina seguente lo trovò nello stesso stato di turbamento in cui la notte l'aveva lasciato. La decisione, comunque era presa: si trattava di sacrificare quel che ora considerava un illusorio orgoglio di nascita in favore di una scelta che era certo gli avrebbe assicurato la felicità per tutta la vita. Ma prima di arrischiarsi a fare la dichiarazione a Elena, si rendeva necessario appurare se quest'ultima nutrisse un qualche interesse per lui, o se avesse già consacrato il proprio cuore al suo rivale in amore, e inoltre chi fosse in realtà codesto rivale. Era assai più facile desiderare d'avere queste informazioni che procurarsele e nonostante Vivaldi avesse tentato mille volte di dar forma a un piano, il delicato rispetto che nutriva per Elena, o il timore di offenderla, o il sospetto d'essere scoperto dalla propria famiglia prima d'essersi assicurato dei sentimenti di lei sempre sorgevano a contrastare i suoi progetti d'indagine.
In tale difficile situazione Vivaldi aprì il suo cuore a un amico che da lungo tempo godeva della sua confidenza e al quale chiese consiglio forse con un'ansia e una sincerità maggiori di quanto si usi in tali occasioni. Non cercava una conferma delle proprie vedute, ma il giudizio imparziale di un'altra persona. Bonarmo, per quanto fosse poco qualificato per la mansione di consigliere, non si fece scrupolo di esprimere il suo punto di vista. Al fine di giudicare se Elena fosse incline a favorire la corte di Vivaldi egli propose, secondo l'usanza del luogo, di organizzare una serenata. Sosteneva infatti che Elena, qualora non fosse mal disposta nei suoi confronti, avrebbe mostrato un qualche segno d'apprezzamento: altrimenti sarebbe rimasta silenziosa e nascosta. Vivaldi si oppose a tale maniera rozza e inadeguata di esprimere un amore sublime come il suo, e possedeva un'opinione troppo nobile dell'animo e della sensibilità di Elena per credere che il futile omaggio d'una serenata avrebbe potuto lusingarne l'amor proprio, o interessarla in suo favore. E anche in tal caso, non osava credere che Elena avrebbe manifestato alcun segno di apprezzamento. 
L'amico rise dei suoi scrupoli e della sua alta considerazione di quel che chiamava sensibilità romantica, e ribatté che l'ignoranza del mondo era l'unica scusa atta a giustificare il suo atteggiamento. Ma Vivaldi interruppe i suoi motteggi, e non tollerò che parlasse in quel modo di Elena neppure per un istante, né che definisse romantica la sua sensibilità. Bonarmo comunque insisté ancora sulla serenata come sistema per lo meno possibile di scoprire quale fosse la sua disposizione verso di lui prima che egli si apprestasse a dichiarare formalmente la propria richiesta; infine Vivaldi, perplesso e sconvolto dall'apprensione e dall'impazienza di porre fine al presente stato di incertezza, si trovò a tal punto sopraffatto dalle sue stesse obiezioni, piuttosto che dall'opera di persuasione dell'amico, che accettò di tentare l'avventura di una serenata quella stessa sera. Vi acconsentì più per sottrarsi allo scoramento che non per la speranza di riuscire: giacché era ancora convinto che Elena non avrebbe mostrato alcun segno che potesse dissipare i suoi dubbi.
Infilarono gli strumenti musicali sotto i mantelli, e coprendosi il volto per non farsi riconoscere si avviarono silenziosi e assorti per la strada che conduceva a villa Altieri. Avevano già oltrepassato l'arco presso cui Vivaldi era stato fermato dallo sconosciuto la notte precedente, quando all'improvviso egli udì un rumore accanto a sé, e alzato il capo al di sopra del mantello riconobbe la medesima persona! Non fece neppure in tempo a pronunciare un'esclamazione di sorpresa, che lo sconosciuto gli si pose nuovamente dinanzi. "Non andare a villa Altieri", gli disse in tono grave, "Se non vuoi andare incontro a una sventura che faresti bene invece a fuggire."
"Quale sventura?" domandò Vivaldi arretrando. "Parla, ti scongiuro!" Ma il monaco era scomparso, e l'oscurità della notte rendeva vano ogni tentativo di appurare da che parte se ne fosse andato.
"Dio mi guardi!" esclamò Bonarmo, "Questo va oltre il mio comprendonio! Ma torniamo a Napoli, è bene obbedire a questo secondo avvertimento."
"Questo va oltre la mia pazienza", ribatté Vivaldi; "Da che parte è andato?"
"Mi è scivolato accanto", rispose Bonarmo, "E prima che potessi afferrarlo era già scomparso!"
"Devo affrontare il peggio in questo momento", disse Vivaldi, "Se ho un rivale, la cosa migliore è muovergli incontro. Procediamo."
Bonarmo protestò accennando ai seri pericoli che un comportamento tanto avventato minacciava di causare. "è evidente che hai un rivale", disse, "E il tuo coraggio non ti servirà a nulla contro sicari prezzolati." Vivaldi sentì il cuore gonfiarsi alla menzione di un rivale. "Se credi sia pericoloso continuare, andrò da solo", disse.
Offeso dal rimprovero, Bonarmo accompagnò l'amico in silenzio, e insieme raggiunsero senza altre interruzioni l'entrata della villa. Vivaldi fece strada verso il lato da cui era entrato la notte precedente, e i due raggiunsero agilmente il giardino.
"Dove sono questi terribili sicari da cui mi mettevi in guardia?", fece Vivaldi in un accesso di sarcasmo.
"Sii cauto nel parlare", rispose l'amico; "Anche ora potremmo trovarci sotto il loro tiro."
"E loro sotto il nostro", osservò Vivaldi.
Poco dopo, gli intrepidi amici raggiunsero l'aranceto situato presso la casa, dove, affaticati dalla salita, si fermarono a riprendere fiato e a preparare gli strumenti per la serenata. La notte era calma: solo allora essi udirono il vocio di una folla lontana. All'improvviso il fulgore dei fuochi d'artificio esplose nel cielo; venivano lanciati da una villa sul margine occidentale del golfo, per onorare la nascita di uno dei principi reali. S'impennavano fino ad altezze immense, e il loro splendore, irradiandosi silenzioso attraverso l'oscurità notturna, rischiarava le mille facce rivolte in su della folla accorsa a guardare, illuminava le acque della baia  e le barchette che ne sfioravani la superficie, e mostrava con chiarezza l'intera curva delle erte spiagge, la maestosa città di Napoli alta sul litorale sottostante, e tra le colline lontano le terrazze delle case affollate di spettatori, e il Corso pullulante di carrozze e lampioni sfavillanti.
Mentre Bonarmo osservava la magnificenza della scena, Vivaldi voltò lo sguardo verso l'abitazione di Elena, una parte della quale si sporgeva fra gli alberi, con la speranza che lo spettacolo l'avesse attirata su uno del balconi: ma ella non gli apparve, né vi erano luci che stessero a indicare la sua vicinanza.
Mentre ancora riposavano sull'erba dell'aranceto, sentirono un improvviso agitarsi di foglie, come se i rami venissero mossi da qualcuno che tentava di aprirsi la strada fra essi. Vivaldi domandò: "Chi va là?", ma non ottenne risposta. Ciò fu seguito da un lungo silenzio.
"Siamo sorvegliati", disse infine Bonarmo, "E proprio ora, forse, siamo quasi sotto il pugnale dell'assassino: andiamocene."
"Oh, fosse il mio cuore così al sicuro dagli strali dell'amore, assassino della mia pace" esclamò Vivaldi, "Come lo è il tuo da quelli dei sicari! Amico mio, vi è ben poco che possa interessarti visto che i tuoi pensieri hanno tanto agio da perdersi in vane preoccupazioni."
"Il mio timore nasce dalla prudenza, non dalla debolezza", ribatté Bonarmo con acredine; "E scoprirai forse come questa mi manchi del tutto, quando soprattutto vorresti che ne avessi."
"Capisco" rispose Vivaldi; "Portiamo a termine questo affare e ti sarà data soddisfazione, giacché ti ritieni oltraggiato: sono tanto ansioso di riparare a un'offesa quanto geloso di riceverne."
"Già", fece Bonarmo, "Vorresti lavare l'offesa che rechi al tuo amico col suo stesso sangue."
"Oh! Giammai, giammai!" disse Vivaldi poggiandosi alla sua spalla. "Perdona la mia precipitosa violenza, rammenta il turbamento del mio animo."
Bonarmo ricambiò l'abbraccio. "Basta", disse, "Via, smettiamola! Amico mio, ti stringo di nuovo al cuore."
Nel corso della conversazione avevano lasciato l'aranceto e raggiunto i muri della villa, dove si appostarono al di sotto di un balcone che sovrastava la finestra attraverso cui Vivaldi aveva veduto Elena la notte precedente. Accordarono gli stumenti e aprirono la serenata con un duetto. Vivaldi aveva una fine voce di tenore, e la medesima predisposizione che ne aveva fatto un appassionato di musica gli insegnò ora a modulare le cadenze con eccellente grazia, e a distribuire gli accenti con un'espressività assai semplice e commovente. Il suono sembrava riprodurre le vibrazioni del suo animo, tenero, implorante, eppure vigoroso. Quella notte, l'entusiasmo gli ispirò tutto il trasporto che la musica, forse, è in grado di comunicare. Quale ne fosse l'effetto su Elena, del resto, non ebbe modo di giudicare, poiché ella non comparve né al balcone, né alla finestra, né dette alcun segno d'apprezzamento. Nulla interruppe la quiete della sera, eccetto i suoni della serenata, nessuna luce dall'interno della villa turbò l'oscurità all'esterno. Una volta, per la verità, durante una pausa del concerto, Bonarmo credette di udire delle voci nelle vicinanze, come di qualcuno che temesse d'essere udito, e ascoltò attentamente ma senza poter appurare la verità. A tratti le sentiva rimbombare profonde, ma poi tornava un silenzio di tomba. Vivaldi sosteneva si trattasse nient'altro che del confuso vociare della folla lontana, sulla spiaggia, ma Bonarmo non si lasciò convincere tanto facilmente.
I musicisti, fallito il primo tentativo di attirare l'attenzione di Elena, si spostarono sul lato opposto dell'edificio, e si piazzarono di fronte al portico, ma con altrettanto scarso successo. Dopo aver dato prova delle loro capacità armoniche e della loro pazienza per oltre un'ora, rinunciarono a ogni ulteriore sforzo di vincere l'ostinatezza di Elena. Vivaldi, nonostante avesse in principio nutrito fievoli speranze di vederla, soffriva ora l'angoscia della delusione: e Bonarmo, inquieto per le possibili conseguenze della sua disperazione, era tanto preoccupato di convincerlo che non aveva alcun rivale, quanto era stato poc'anzi ostinato nell'affermare che l'aveva. Infine essi lasciarono i giardini. Vivaldi promise che non si sarebbe dato pace finché non avesse scoperto chi fosse lo sconosciuto che aveva sfacciatamente rovinato la sua pace, per costringerlo a rendere una spiegazione dei suoi ambigui avvertimenti; mentre Bonarmo protestava circa l'imprudenza e la difficoltà delle indagini, sottolineando che tale condotta avrebbe finito col diffondere la notizia del suo attaccamento a Elena là dove egli soprattutto non voleva si sapesse.
Vivaldi rifiutò di cedere a rimostranze o considerazioni di sorta. "Vedremo", disse, "Se questo demone in vesti di monaco mi perseguiterà ancora nel solito luogo: se oserà farlo non sfuggirà alla mia presa, e se no, attenderò vigile il suo ritorno, così come egli sembra aver atteso il mio. Mi apposterò nella penombra dell'antica rovina e lo aspetterò, dovessi restarci fino alla morte!"
Bonarmo fu particolarmente colpito dalla veemenza con cui Vivaldi pronunciò queste ultime parole, ma si astenne dall'opporsi oltre al suo proposito, e gli suggerì soltanto di assicurarsi di essere bene armato. "Poiché", soggiunse, "Laggiù potrai aver bisogno di armi, sebbene non ve ne fosse bisogno a villa Altieri. Ricorda quanto ti disse lo straniero, che i tuoi passi sono sorvegliati."
"Ho con me la spada", rispose Vivaldi, "E lo stiletto che porto abitualmente; ma dovrei chiederti quali siano le tue armi di difesa."
"Shh!", fece Bonarmo allorché voltarono ai piedi d'una roccia che dominava la strada, "ci stiamo avvicinando al luogo, ecco laggiù l'arco diroccato!"
Esso apparve ai loro occhi, fosco e sospeso fra due rupi dove la strada piegava e scompariva. Su una delle rupi sorgevano le rovine di un forte romano di cui esso faceva parte, e sull'altra pini ombrosi e boschetti di querce che adornavano la roccia fino ai piedi.
Avanzarono in silenzio, con passo leggero e gettando sovente all'intorno un cauto sguardo, aspettandosi a ogni istante di vedere il monaco sbucar fuori da qualche nascondiglio nei dirupi, e avvicinarsi a loro. Ma raggiunsero la porta senza incontrare ostacoli. "Siamo arrivati prima di lui, comunque", disse Vivaldi mentre entravano nel buio. "Parla piano, amico mio", fece Bonarmo, "L'oscurità potrebbe nascondere altri, oltre a noi. Il posto non mi piace."
"Chi altro se non noi sceglierebbe un rifugio tanto lugubre?" sussurrò Vivaldi, "A meno che, naturalmente, non si tratti di banditi; questa tetraggine si addice in verità al loro stato d'animo, e ben si addice anche al mio."
"Ma si addice anche ai loro propositi, oltre che allo stato animo", osservò Bonarmo. "Togliamoci da questo buio profondo e torniamo verso la strada aperta, dove possiamo vedere altrettanto da vicino quelli che arrivano."
Vivaldi obiettò che sulla strada essi stessi potevano essere scoperti. "E se il mio torturatore sconosciuto ci vede, il piano salta, poiché se quello vuole attaccarci lo farà solo di sorpresa, a evitare che noi lo si possa acciuffare da parte nostra."
Detto questo, Vivaldi si piazzò dove più fitta era l'oscurità del rudere, che aveva notevole profondità, accanto a una rampa di gradini intagliati nella roccia che salivano alla fortezza. L'amico lo seguì sistemandosi al suo fianco. Dopo una pausa di silenzio, durante la quale Bonarmo meditava e Vivaldi vigilava impaziente, il primo disse: "Credi davvero che i nostri sforzi di agguantarlo potranno riuscire? Mi scivolò accanto con strana facilità, certamente era più che umano!"
"Cosa vuoi dire?", domandò Vivaldi.
"Ecco, voglio dire che potrei credere alle superstizioni. Questo luogo, forse, mi ispira sentimenti cupi a esse congeniali, poichè trovo che in questo istante ben poche storie mi sembrerebbero troppo assurde per credervi."
Vivaldi sorrise. "E devi ammettere", continuò Bonarmo, "Che quell'uomo ci è apparso in circostanze piuttosto straordinarie. Come poteva conoscere il tuo nome, che pronunciò, come hai raccontato, durante il primo incontro? Come poteva sapere donde venivi o dove intendevi andare? Per quale magia poteva essere informato dei tuoi piani?"
"Non sono certo che ne sia informato tuttora", ribatté Vivaldi; "Ma se anche lo fosse, non sono necessari mezzi sovrumani per ottenere tali informazioni."
"Gli eventi di questa sera dovrebbero certamente convincerti che egli è a parte dei tuoi intendimenti", insisté Bonarmo. "Credi possibile che Elena sarebbe rimasta insensibile alle tue attenzioni, se il suo cuore non fosse stato preso da altri, e che non si sarebbe mostrata alla finestra?"
"Tu non conosci Elena", rispose Vivaldi, "E perciò ti perdono una volta di più questa domanda. Tuttavia, se fosse stata disposta ad accettare la mia corte, certo un piccolo segno di approvazione...", non terminò la frase.
"Lo sconosciuto ti avvertì di non andare a villa Altieri", riprese Bonarmo, "Sembrava prevedere l'accoglienza che ti era riservata, e accennò a un pericolo cui sei finora fortunatamente scampato."
"Già, egli previde fin troppo esattamente quell'accoglienza", disse Vivaldi smarrendo la prudenza nella foga della passione; "Ed è lui stesso, probabilmente, il rivale da cui voleva indurmi a star lontano. Ha assunto quel travestimento solo per far gioco sulla mia ingenuità con maggiore efficacia, e per distogliermi dal corteggiare Elena. E io dovrei starmene quieto ad aspettare il suo arrivo? O starmene acquattato nell'ombra come un assassino a causa di un simile rivale?"
"Per amor del cielo!", fece Bonarmo, "Modera questi eccessi, pensa a dove siamo. Queste tue supposizioni sono improbabili al massimo grado." Spiegò per quali ragioni lo credesse, e riuscì a convincere Vivaldi, che una volta ancora fu persuaso a essere paziente.
Erano rimasti a vigilare per parecchio tempo, quando Bonarmo vide una figura accedere all'arco dal lato più vicino ad Altieri. Non ne udì il passo, ma ne scorse l'oscura sagoma appostarsi all'entrata, dove il crepuscolo della notte lucente s'infiltrava per pochi passi all'interno. Vivaldi teneva gli occhi fissi sulla strada che conduceva a Napoli, e pertantò non potè vedere ciò che aveva attirato l'attenzione di Bonarmo, il quale, temendo l'impulsività dell'amico, evitò di fargli notare immediatamente quel che aveva visto. Giudicò invece più prudente stare a osservare i movimenti dello sconosciuto così da appurare se realmente si trattasse del monaco. La statura dell'uomo e la scura veste in cui pareva avvolto lo indussero infine a credere che fosse lui quello che attendevano. Afferrò allora il braccio di Vivaldi per richiamarne l'attenzione, quando la figura si mosse e scivolò nel buio scomparendo: ma questo non prima che Vivaldi avesse compreso il motivo del gesto dell'amico e del suo accorto silenzio.
Non udirono alcun rumore di passi sovranzarli, e convinti che quella persona, qualunque cosa fosse, non aveva ancora lasciato la porta, mantennero il loro posto vigili e immobili. A un tratto sentirono nei loro pressi un fruscio come di vesti, e Vivaldi, incapace di contenere oltre la propria impazienza, uscì dal suo nascondiglio e stese le braccia a impedire che alcuno potesse fuggire, quindi domandò: "Chi va là?". Il fruscio cessò, e non si ebbe risposta. Bonarmo sguainò la spada, gridando che l'avrebbe fiondata per l'aria fino a che non avesse rivelato se stessa, non le avrebbe fatto alcun male. Vivaldi promise lo stesso da parte sua; ma ancora non giunse risposta. Mentre stavano così in attesa di udire una voce, parve loro che qualcuno li avesse aggirati, e in effetti il passaggio non era abbastanza stretto da impedirlo. Vivaldi corse avanti, ma non vide nessuna figura uscire dall'arco sulla strada, dove la luce più forte avrebbe dovuto renderla visibile.
"Di sicuro è passato qualcuno", sussurrò Bonarmo, "E mi pare di sentire dei passi lassù, sui gradini che conducono alla fortezza."
"Inseguiamolo", gridò Vivaldi, e cominciò a salire.
"Fermati, per amore del cielo fermati!", fece Bonarmo; "Pensa a cosa stai per fare! Non sfidare la totale oscurità delle rovine, non inseguire l'assassino nella sua tana!"
"è lui il monaco!", esclamò Vivaldi, sempre salendo, "E non mi sfuggirà!".
Bonarmo si fermò un istante ai piedi della scalinata, mentre l'amico scompariva; esitava a decidere cosa fare, finché vergognandosi di lasciarlo andare solo incontro al pericolo s'inoltrò su per la rampa, superando i gradini irregolari senza difficoltà.
Giunto in cima alla rocca si ritrovò su un terrazzo che correva lungo la sommità della porta, e che un tempo era stato fortificato; attraversando la strada dominava la gola su entrambi i lati. Alcuni frammenti di mura massicce ancora dotati delle feritoie per arcieri stavano a testimoniare l'antica funzione di quel passaggio, che conduceva altresì a una torre quasi nascosta dai numerosi pini arroccati sulla rupe di fronte. Esso era perciò servito non solo come poderosa batteria a protezione della strada, ma collegando i due versanti della strettoia costituiva una linea di comunicazione tra il forte e l'avamposto.
Bonarmo si guardò intorno alla vana ricerca dell'amico, e solo gli echi, tra le rocce, della propria voce risposero alle sue ripetute chiamate. Dopo aver brevemente ponderato se entrare all'interno dell'edificio principale o attraversare il terrazzo fino alla torre, scelse la prima possibilità, e penetrò all'interno di un'area accidentata, le cui mura lungo il declivio del precipizio erano a mala pena rintracciabili. La cittadella, un torrione circolare di grandiosa imponenza con alcune porte romane sparse all'intorno, era tutto ciò che restava di questa fortezza un tempo importantissima, eccetto, in verità, una massa di rovine nei pressi del limitare della rupe, la cui forma rendeva difficile indovinare a quale scopo fossero destinate.
Bonarmo oltrepassò le pareti immani della cittadella, ma la completa oscurità al loro interno arrestò i suoi passi, ed egli si contentò di chiamare a gran voce Vivaldi, dopodiché ritornò all'aria aperta.
Mentre si avvicinava alla massa di rovine la cui forma singolare aveva destato la sua curiosità, credette di distinguere il tenue mormorio di una voce umana, e si pose ansioso in ascolto. All'improvviso qualcuno sbucò correndo da un portale dell'edificio in rovina, la spada sguainata alla mano: era Vivaldi in persona. Bonarmo gli andò incontro prontamente; era pallido e senza fiato e dovettero trascorrere alcuni istanti prima ch'egli parlasse, o addirittura udisse le insistenti domande dell'amico.
"Andiamocene", disse Vivaldi, "Lasciamo questo posto!"
"Molto volentieri", rispose Bonarmo, "Ma dove sei stato, e chi hai visto che ti ha sconvolto a tal punto?"
"Non chiedermi altro, andiamo", ripeté Vivaldi.
Discesero insieme la rocca, e allorché Bonarmo, raggiunto l'arco, domandò in parte per scherzo se dovevano rimanere ancora a far la guardia, l'amico rispose "No!" con una veemenza che lo spaventò. S'incamminarono in tutta fretta per la via di Napoli, Bonarmo ostinandosi a ripetere domande cui Vivaldi sembrava riluttante a rispondere, essendo non meno curioso di conoscere il motivo di tale improvviso riserbo che di sapere chi quello avesse visto.
"Allora era il monaco", disse Bonarmo; "L'hai preso infine?"
"Non so cosa devo pensare", rispose Vivaldi, "Sono più confuso che mai."
"Allora ti è sfuggito?"
"Ne discuteremo un'altra volta", fece Vivaldi; "Ma sia come sia, l'affare non finisce qui. Voglio tornare lassù domani notte con una torcia; oserai rischiare assieme a me?"
"Non so", rispose Bonarmo, "Se dovrei farlo, giacché non so a che scopo."
"Non ti costringo a venire", lo assicurò Vivaldi; "Il mio scopo ti è già noto."
"Non hai dunque potuto scoprire chi sia lo straniero, hai ancora dei dubbi riguardo la persona che hai inseguito?"
"Ho dei dubbi che la notte di domani, spero, dissiperà."
"Tutto questo è molto strano!" esclamò Bonarmo, "Soltanto ora sono stato io stesso testimone dell'orrore con cui lasciasti la fortezza di Paluzzi, e già tu parli di ritornarci! E perchè di notte e non invece di giorno, quando minori pericoli ti insidierebbero?"
"Non ne so il motivo", rispose Vivaldi; "Devi considerare che la luce del giorno non penetra mai nei recessi in cui mi sono introdotto; a qualunque ora del giorno o della notte occorre ispezionare il posto con le torce."
"Giacché è così", riprese Bonarmo, "Come facesti a trovare la strada nel buio completo?"
"Ero troppo occupato per sapere dove andavo; mi sentivo come guidato da una mano invisibile."
"Nonostante tutto", osservò Bonarmo, "Dobbiamo approfittare delle ore diurne, se non della luce diurna, ammesso che io ti accompagni. Sarebbe poco meno che una pazzia visitare per due volte un luogo probabilmente infestato da ladroni, e per di più a mezzanotte, l'ora a essi più congeniale."
"Dovrò stare nuovamente di guardia nel solito posto", rispose Vivaldi, "Prima di dar fondo alle mie ultime risorse, e questo non può esser fatto durante il giorno. Inoltre, è necessario che io ci vada a un'ora particolare, l'ora in cui il monaco è sempre apparso fino a questo momento."
"Allora ti è scappato?", fece Bonarmo, "E ignori tuttora chi sia?"
Vivaldi replicò semplicemente chiedendo all'amico se l'avrebbe accompagnato. "Altrimenti", aggiunse, "Devo sperare di trovare un altro compare."
Bonarmo disse che voleva riflettere sulla proposta, e che l'avrebbe informato della sua decisione prima della sera seguente.
Quando la conversazione ebbe termine i due erano arrivati a Napoli, e al cancello di palazzo Vivaldi si separarono per il resto della notte.