Libro Primo, Capitolo Secondo


LIBRO PRIMO

CAPITOLO SECONDO


Olivia:  Oh, cosa vorresti fare?
Viola: Costruirmi una capanna di salici alla tua porta,
e richiamare in essa la mia anima;
scriverti i fedeli versi del mio amore proscritto,
e cantarli a gran voce nel cuore della notte:
urlare il tuo nome alle colline echeggianti,
e far sì che l'etere futile e ciarliero
gridi: Olivia! Oh! Non riposare dunque
tra gli elementi dell'aria e della terra,
ma concedimi la tua pietà.

Shakespeare, "La dodicesima notte"


Poiché Vivaldi non era riuscito a ottenere una spiegazione alle parole del monaco, decise di sottrarsi alla tortura di quella ansiosa incertezza riguardo al suo rivale recandosi a Villa Altieri e palesando le sue aspirazioni. La mattina immediatamente successiva alla sua ultima avventura vi si recò, e avendo chiesto della signora Bianchi gli fu risposto che non era possibile vederla. Con grande difficoltà ebbe ragione della domestica, convincendola a riferire la richiesta di essere ammesso alla presenza della signora per pochi minuti. Questo gli venne concesso, ed egli fu condotto proprio nella stanza in cui aveva precedentemente veduto Elena. Non vi trovò nessuno, ma venne informato che la signora Bianchi lo avrebbe raggiunto subito.
Durante l'attesa Vivaldi si sentì agitato ora da un'acuta impazienza, ora da un piacere entusiastico, mentre posava lo sguardo sull'altare da cui aveva visto Elena alzarsi, e presso il quale ella tuttora appariva alla sua fantasia, e su ogni oggetto che sapeva essere stato carezzato dal suo sguardo.
Tali oggetti, così prossimi a lei, avevano in qualche modo acquistato nell'immaginazione di Vivaldi quel carattere sacro che ella aveva impresso nel suo cuore, e in certa misura ebbero su di lui lo stesso effetto della presenza di Elena. Tremò mentre sollevava il liuto che ella era solita suonare, e toccandone le corde gli parve di sentire il suono della sua stessa voce.
Su di un cavalletto stava poggiato un disegno incompiuto, che raffigurava una ninfa danzante: comprese immediatamente che quelle linee erano state tracciate dalla mano di Elena. Era la copia di una statura di Ercolano, e nonostante non fosse che una copia era pervasa da un geniale spirito di originalità. I passi leggeri sembravano quasi sollevarsi, e l'intera figura ispirava un'aerea leggerezza di straordinaria grazia. Vivaldi constatò che il disegno faceva parte d'una serie che adornava la stanza, e notò con sorpresa che i soggetti ritratti erano i medesimi che aveva visto nel gabinetto del padre, e che, gli era stato detto, erano le sole copie autorizzate degli originali custoditi nel museo reale.
Ogni cosa che gli capitasse sotto gli occhi sembrava manifestare la presenza di Elena, mentre dai fiori che rallegravano e decoravano la stanza emanava un profumo che ammaliò i suoi sensi ed eccitò la sua fantasia. Prima dell'arrivo della signora Bianchi l'ansia e l'apprensione di Vivaldi erano divenute tanto intense che egli, credendosi incapace di controllarsi in sua presenza, fu più di una volta sul punto di fuggire. Infine udì dei passi avanzare nel salone, e il respiro venne quasi a mancargli. La figura della signora Bianchi non era tale da suscitare ammirazione, e un osservatore avrebbe sorriso del turbamento di Vivaldi, del passo incerto e dello sguardo sperduto con cui mosse incontro alla venerabile signora Bianchi, s'inchinò sulla sua mano sbiadita, e stette ad ascoltarne la voce querula. La signora lo accolse con aria riservata, e ci vollero alcuni minuti prima che Vivaldi potesse riprendersi a sufficienza per spiegare lo scopo della sua visita; il quale, del resto, una volta che egli l'ebbe svelato, non parve affatto sorprenderla.
Ascoltava le dichiarazioni del suo riguardo per la nipote con compostezza, sebbene il viso avesse un'espressione piuttosto severa, e allorché Vivaldi la scongiurò di intercedere in suo favore per ottenere la mano di Elena, ella disse: "Non posso ignorare che una famiglia del vostro rango debba avversare un'unione con una come la mia; né sono inconsapevole del fatto che la piena considerazione del valore della nascita sia una caratteristica rimarchevole della natura del marchese e della marchesa di Vivaldi. Questa proposta deve riuscire loro sgradita, o almeno non devono esserne informati; e tengo a precisare, signore, che sebbene il rango della signora di Rosalba sia inferiore a quello della vostra famiglia, il suo orgoglio di certo non lo è."
Vivaldi disdegnava tergiversare, tuttavia, fu sorpreso di sentirsi ricordare la verità tanto bruscamente. D'altra parte, la franchezza con cui infine riconobbe la giustezza delle parole della signora Bianchi, e il vigore della sua passione, troppo eloquente per venire malintesa, addolcirono alquanto l'inquietudine della signora, alla cui mente si affacciarono ora nuove considerazioni. Valutò infatti che la sua età avanzata e i malanni da cui era afflitta avrebbero ben presto, secondo il corso della natura, fatto di Elena una giovane orfana senza amici, ancora in parte dipendente dalla propria operosità, e affidata interamente al suo stesso giudizio. Accompagnandosi tanta bellezza a una così scarsa conoscenza del mondo, i pericoli della sua condizione futura apparvero in piena evidenza all'amorevole signora Bianchi, la quale cominciò a ritenere più opportuno sacrificare certi princìpi, che in altre circostanze sarebbero stati degni di lode, pur di procurare alla nipote la protezione di un marito e di dignità che le impediva di accondiscendere a un'unione clandestina fra Elena e qualunque altra famiglia; e sarebbe stata la sua premurosità materna a salvarla dal biasimo che tale condotta meritava.
Ma prima di decidere a questo proposito era necessario accertarsi che Vivaldi fosse degno della fiducia che avrebbe riposto in lui. Anche per mettere alla prova la costanza dei suoi sentimenti, al momento incoraggiò assai poco le sue speranze. Respinse assolutamente la sua richiesta di vedere Elena, fino a che non avesse ulteriormente vagliato le sue proposte; e quanto alla domanda se egli avesse un rivale, e in caso affermativo se Elena fosse disposta a favorirlo, la signora Bianchi non si pronunciò, sapendo che la sua risposta avrebbe dato adito a speranze che in seguito sarebbe stato arduo scoraggiare.
Infine Vivaldi prese commiato, affiancato sì dalla completa disperazione, ma ancora privo di certezze: non era riuscito ad appurare se davvero avesse un rivale, né se Elena lo onorasse d'una pur minima parte della sua stima.
Aveva ricevuto il permesso di visitare nuovamente la signora Bianchi dopo qualche tempo, ma fino ad allora i giorni gli sarebbero sembrati eterni; e giacché una lunga pausa di sospensione gli riusciva assolutamente insopportabile, mentre camminava sulla via di Napoli votò tutti i suoi pensieri alla ricerca del modo migliore di porvi termine. Arrivò così al famoso portale, dove si guardò intorno, pur senza crederci, alla ricerca del suo tormentatore misterioso. Lo straniero non comparve, e Vivaldi proseguì per la sua strada deciso a tornare sul posto quella notte, nonché a introdursi segretamente all'interno di villa Altieri, dove sperava che una seconda visita gli avrebbe procurato un poco di sollievo dal presente stato di angoscia.
Giunto a casa trovò che il marchese suo padre gli aveva lasciato l'ordine di attendere il suo ritorno: obbedì, ma il giorno trascorse senza che quello fosse tornato. La marchesa, quando lo vide, gli domandò con un'espressione estremamente eloquente in cosa fosse stato impegnato ultimamente, e frustrò tutti i suoi progetti per la sera richiedendogli di assisterla durante un'escursione a Portici. Questo gli impedì di sapere quale decisione avesse preso Bonarmo, di appostarsi sotto Paluzzi, e di visitare nuovamente la residenza di Elena. Rimase a Portici tutta la sera, e al suo ritorno a Napoli il marchese era ancora assente, sicché Vivaldi rimase all'oscuro dell'argomento del quale il padre intendeva parlargli. Un biglietto da parte di Bonarmo gli notificò che questi si rifiutava di accompagnarlo alla fortezza, e lo invitava ad abbandonare un proposito tanto pericoloso. Essendo privo di un compagno d'avventure per quella notte e non volendo andare solo, Vivaldi rimandò a un'altra sera; ma nessuna considerazione poté trattenerlo dal visitare villa Altieri. Non desiderando insistere presso il suo amico chiedendogli di accompagnarlo, visto che quello aveva respinto la sua prima richiesta, prese con sé il liuto e giunse solo al giardino, a un'ora meno tarda del solito.
Il sole era tramontato da un pezzo, ma l'orizzonte ancora conservava una certa brillantezza di zafferano, e l'intera volta celeste aveva la trasparenza caratteristica di quel clima incantevole, stendendo una penombra rassicurante sopra al mondo intero a riposo. A Sud-est la sagoma del Vesuvio si delineava distintamente, ma la montagna era scura e silenziosa.
Vivaldi non udì altro che le grida accese e affrettate di alcuni scugnizzi che litigavano giocando alla morra su una spiaggia lontana. Ma dai graticci ombrosi d'un piccolo padiglione all'interno dell'aranceto giunse ai suoi occhi una luce, e l'improvvisa speranza di vedere Elena, da essa suscitata, quasi lo sopraffece. Gli era impossibile non approfittare dell'opportunità di vederla, tuttavia arrestò i suoi passi impazienti per domandarsi se fosse onorevole introdursi in cotal modo nlla sua intimità, e farsi spettatore insospettato dei suoi segreti pensieri.
Ma la tentazione era troppo forte per la sua titubante onestà.
La pausa non fu che temporanea: avanzando cautamente verso il padiglione si fermò vicino a una finestrella aperta, in modo che i rami di un arancio lo nascondessero consentendogli al contempo di vedere perfettamente l'interno. Elena era sola, seduta in atteggiamento pensoso e tenendo in grembo il liuto, senza però suonarlo. Sembrava essersi astratta dagli oggetti che la circondavano, e il suo viso era pervaso da una tenerezza che gli rivelò come i suoi pensieri fossero occupati da un oggetto di estremo interesse. Rammentando che quando l'aveva vista in tale stato l'ultima volta ella aveva pronunciato il suo nome, le sue speranze risorsero, e stava ormai per uscire dal nascondiglio e gettarsi ai suoi piedi quando Elena cominciò a parlare, e Vivaldi si arrestò.
"Perchè questo insensato orgoglio di nascita!", disse. "Un folle pregiudizio distrugge la nostra serenità. Mai accetterei di entrare in una famiglia riluttante ad accogliermi; si accorgeranno, alla fine, che ho anch'io una preziosa eredità: la nobiltà d'animo. Oh, Vivaldi! Non fosse per questo infausto pregiudizio!..." Vivaldi ascoltava immobile; sembrava in estasi. Il suono del liuto e la voce di Elena lo ridestarono: aveva intonato la prima strofa della medesima aria con cui egli aveva iniziato la sua serenata precedente, esprimendo tutto il dolce pathos che doveva aver ispirato l'autore durante la composizione.
Elena fece una pausa al termine della prima strofa, e Vivaldi, vinto dalla tentazione di cogliere la splendida opportunità di esprimere la propria passione, toccò le corde del suo liuto, e le rispose con la seconda strofa. Il tremore della sua voce, pur limitandone l'intonazione, ne accresceva l'espressività. Elena la riconobbe all'istante: d'un tratto impallidì, per poi arrossire, e prima che il canto fosse giunto alla fine sembrava aver del tutto perduto i sensi. Vivaldi avanzò all'interno del padiglione, e la sua vicinanza la destò: Elena gli fece cenno di indietreggiare, e prima che egli potesse precipitarsi a sorreggerla lei si alzò, e sarebbe fuggita via se Vivaldi non l'avesse fermata implorandola di ascoltarlo solo per un attimo.
"è impossibile", disse Elena.
"Lasciate almeno ch'io sappia che non mi detestate", replicò Vivaldi, "Che questa intrusione non mi priverà della stima che proprio ora voi avete asserito di concedermi..."
"Oh, mai e poi mai!", lo interruppe nervosamente Elena. "Dimenticate che io abbia mai proferito tali parole, dimenticate di averle udite, io non so più cosa dissi."
"Oh, bellissima Elena, credete possibile che io sia in grado di dimenticare? Questa sarà la mia consolazione nelle ore di solitudine, la speranza che mi sosterrà..."
"Non posso trattenermi, signore", lo interruppe nuovamente Elena, ancor più imbarazzata, "Né so perdonarmi per aver permesso questa conversazione."
Ma mentre pronunciava queste ultime parole un involontario sorriso sorse a contraddirne il senso. Vivaldi credette al sorriso piuttosto che alle parole, ma prima che potesse esprimere la fulgida gioia della sua certezza, Elena aveva lasciato il padiglione. Vivaldi la inseguì per il giardino: ma ormai era scomparsa.
Da quel momento Vivaldi si sentì come rinato a una nuova esistenza. Il mondo intero gli sembrava il Paradiso: quel sorriso gli si era impresso nel cuore per sempre. Nella pienezza della presente felicità gli pareva impossibile tornare un giorno a essere triste, e sfidava qualunque maligna insidia il futuro avesse in serbo per lui. A passi leggeri come l'aria ritornò a Napoli e lungo la via neppure una volta si ricordò di cercare il suo vecchio ammonitore.
Il marchese e la madre erano fuori casa, cosicché egli ebbe agio di soffermarsi sui ricordi incantati che gli empivano l'animo, e dai quali non tollerava di staccarsi neppure per un istante. Tutta la notte si aggirò per il suo appartamento, preda di un'agitazione pari a quella che in precedenza gli aveva inflitto l'ansia; vergava lettere per Elena che poi distruggeva, temendo a volte d'aver scritto troppo, altre volte d'aver scritto troppo poco.
Gli sovvenivano certe circostanze che aveva dimenticato di menzionare, e si rammaricava delle fredde parole alle quali affidava sentimenti che nessun linguaggio sembrava in grado di esprimere adeguatamente.
Per l'ora in cui si svegliarono i domestici aveva comunque completato una lettera che pareva soddisfarlo, e la spedì a villa Altieri tramite una persona di fiducia. Ma non appena il servitore ebbe varcato il cancello gli sovvennero nuovi argomenti che desiderava aggiungere, e nuove formulazioni della massima importanza che avrebbero reso più efficacemente la sua idea, e avrebbe rinunciato a mezzo mondo pur di poter richiamare il messaggero.
In tale stato d'agitazione fu chiamato a presentarsi al marchese, il quale era stato ultimamente troppo impegnato per rispettare il suo stesso appuntamento. Vivaldi non rimase a lungo all'oscuro del motivo di tale incontro.
"Desideravo parlarti", cominciò il marchese assumendo un'aria accigliata e severa, "Di una questione della massima importanza per il tuo onore e la tua felicità; e vorrei inoltre darti modo di smentire una voce che mi avrebbe causato un disagio considerevole, se avessi potuto credervi. Fortunatamente ho troppa fiducia in mio figlio per darvi credito, e sostengo che questi conosce troppo bene quel che è dovuto sia alla sua famiglia che a se stesso per compiere alcuna azione che deroghi alla dignità dell'una e dell'altro. La presente conversazione, pertanto, ha come unico fine di offrirti l'occasione di refutare la calunnia di cui dirò, e di mettermi in condizione di contraddirla presso coloro che me l'hanno comunicata."
Vivaldi attese impaziente la conclusione di questo esordio, quindi pregò il padre di informarlo del contenuto di tali voci.
"Si dice", riprese il marchese, "Che vi è una giovane donna, il cui nome è Elena Rosalba... mi pare che così si chiami; conosci nessuna donna con questo nome?"
"Se la conosco!", esclamò Vivaldi, "Ma perdonatemi procedete pure, mio signore."
Il marchese si arrestò guardando il figlio con durezza, ma senza mostrarsi sorpreso. "Si dice che una giovane donna con questo nome abbia messo in opera degli artifizi al fine di ammaliare i tuoi sentimenti, e..."
"è assolutamente vero, mio signore, che la signora Rosalba ha conquistato i miei sentimenti", lo interruppe Vivaldi con prontezza, "Ma senza ricorrere ad alcun artifizio."
"Desidero non essere interrotto", disse il marchese, interrompendolo a sua volta. "Si dice che costei abbia così abilmente adattato il suo carattere al tuo, che, con l'aiuto di una parente che vive con lei, ti ha ridotto alla degradante condizione di un ossequioso corteggiatore."
"La signora Rosalba, mio signore, mi ha elevato all'onore di essere suo corteggiatore", disse Vivaldi, ormai incapace di contenere la sua passione. Stava per continuare quando il marchese lo fermò bruscamente: "Riconosci la tua follia, dunque!"
"Mio signore, mi vanto della mia scelta."
"Giovanotto", ribatté il padre, "Giacché tali sono l'arroganza e l'entusiasmo romantico d'un ragazzo, per una volta voglio perdonarti, ma fa' attenzione: solo per una volta. Se riconosci il tuo errore, allontana all'istante questa nuova favorita..."
"Mio signore!"
"Devi allontanarla all'istante", ripeté il marchese ancora più inflessibile; "E per provarti come io sia più misericordioso che giusto, sono disposto a queste condizioni a concederle una piccola rendita annuale per riparare in parte alla condizione depravata nella quale tu hai contribuito a precipitarla."
"Mio signore!" esclamò Vivaldi atterrito, quasi incapace di proferir verbo, "Mio signore!... depravata?", e respirando a fatica. "Chi ha osato insudiciare la sua immacolata reputazione insultando le vostre orecchie con queste infami falsità? Ditemelo, vi scongiuro, ditemelo immediatamente, che io possa affrettarmi a dargli quel che si merita. Depravata!... rendita annuale... una rendita annuale! Oh, Elena! Elena!" Mentre pronunciava quel nome lacrime di tenerezza si mescolarono ad altre, provocate dall'indignazione.
"Giovanotto", disse il marchese, che aveva osservato la violenza delle sue emozioni con grave disappunto e preoccupazione, "Io non presto fede a certe voci a cuor leggero, e non potrei sopportare di dubitare io stesso della verità di ciò che ho detto. Tu sei stato ingannato, e la tua vanità prolungherà l'inganno se non accondiscenderò a esercitare la mia autorità, strappando il velo dai tuoi occhi. Allontanala all'istante, e io addurrò prove della sua condotta precedente che faranno vacillare persino la tua fede, per quanto entusiastica essa sia."
"Allontanarla!", ripeté Vivaldi con una fermezza pacata ma austera quale il padre non gli aveva mai visto assumere; "Mio signore, voi non avete mai dubitato della mia parola, e ora io vi do in pegno la mia parola onorevole che Elena è innocente. Innocente! Oh cielo, che sia necessario affermarlo, e soprattutto, che sia necessario difenderla!"
"Devo certamente rammaricarmi che lo sia", rispose il marchese freddamente. "Mi hai dato la tua parola, che non posso porre in questione. Sono convinto perciò che tu sia in errore, che tu la creda virtuosa, nonostante le tue visite nottetempo alla sua casa. E mettiamo che lo sia, povero ragazzo! quale riparazione puoi offrirle per la folle infatuazione che ha così macchiato il suo onore? Quale..."
"Annunciando al mondo, mio signore, che ella è degna di essere mia sposa", rispose Vivaldi, con un bagliore sul volto che rivelava il coraggio e l'esultanza di un animo virtuso.
"Tua sposa!", disse il marchese in tono di ineffabile sdegno, cui successe di colpo un'irata preoccupazione.
"Se credessi che a tal punto tu vuoi dimenticare quel che è dovuto all'onore della tua casa, ti disconoscerei per sempre come mio figlio."
"Oh! Perchè", fece Vivaldi agitato da passioni contrastanti, "Perchè dovrei essere accusato di dimenticare cosa sia dovuto a un padre, quando sto soltanto asserendo cosa è dovuto all'innocenza, quando prendo le difese di una giovane donna che non ha chi possa difenderla! Perchè non mi si concede di conciliare doveri tanti affini! Ma, accada quel che accada, difenderò chi è oppresso, e mi vanterò della virtù che insegna come sia questo il primo dovere dell'uomo. Sì, mio signore, se così deve essere, sono pronto a sacrificare doveri inferiori per la gloria di un principio che dovrebbe gonfiare i cuori e governare le azioni di noi tutti. E terrò fede nel migliore dei modi all'onore della mia casa rispettandone i decreti."
"Qual'è questo principio", ribatté adirato il marchese, "Che ti insegna a disobbedire a tuo padre; qual'è questa virtù che ti induce a degradare la tua famiglia?"
"Non può esservi degradazione, mio signore, dove non vi è peccato", rispose Vivaldi; "E vi sono casi, perdonatemi mio signore, vi sono alcuni casi nei quali è virtuoso disobbedire."
"Questa moralità paradossale", disse il marchese con disgusto, "E questo linguaggio romantico mi lasciano bene intendere quale sia il carattere dei tuoi compari, e quale l'innocenza di colei che difendi in tono tanto cavalleresco. Non lo sai, Signor di Vivaldi, che tu appartieni alla tua famiglia, non la tua famiglia a te; che tu non sei che il custode del suo onore, e non hai la facoltà di disporre di te stesso? La mia pazienza non tollererà oltre!"
Né poteva la pazienza di Vivaldi tollerare tale ripetuto assalto contro l'onore di Elena. Ma pur seguitando a protestarne l'innocenza, egli curò di farlo in tono più conveniente al cospetto d'un padre; e sebbene conservasse la sua indipendenza di uomo, era ugualmente preoccupato a non violare i suoi doveri di figlio. Sfortunatamente il marchese e Vivaldi avevano opinioni differenti, quanto ai limiti di questi doveri: il primo li estendeva all'obbedienza passiva, mentre il secondo riteneva che essi cessassero quando entrava in gioco la felicità dell'individuo, come nel matrimonio. Si separarono irritati l'uno contro l'altro. Vivaldi non riuscì a indurre il padre a rivelare il nome dell'infame informatore, o a riconoscersi convinto dell'innocenza di Elena; parimenti il marchese non ebbe successo nei suoi tentativi di ottenere dal figlio la promessa che non avrebbe mai più visto quella donna.
Ecco dunque Vivaldi, che solo poche ore prima aveva provato una beatitudine suprema in grado di cancellare tutte le esperienze passate e annientare qualunque considerazione per il futuro: una gioia così intensa da persuaderlo a non credere di dover provare nuovamente l'amarezza dell'infelicità; lui che aveva sentito quel momento come una sorta di eternità che lo rendeva libero da ogni debito verso il mondo, proprio lui era così facilmente ricaduto nella regione del tempo e della sofferenza.
Era preda di un conflitto di passioni senza fine. Amava suo padre, e sarebbe stato il primo a rammaricarsi della contrarietà che egli stesso gli causava, non si fosse risentito del disprezzo che quello aveva dimostrato nei confronti di Elena. Adorava Elena, e mentre era consapevole dell'impossibilità di rinunciare alle proprie esperienze, era ugualmente indignato per le calunnie che ne oscuravano il nome, e impaziente di vendicare l'insulto nei confronti di chi per primo l'aveva calunniata.
Sebbene il rifiuto del padre in relazione al matrimonio con Elena fosse stato da lui previsto, il confronto con quella realtà era più arduo e doloroso di quanto avesse immaginato: l'offesa arrecata a Elena era invece tanto inaspettata quanto intollerabile. Ma questa circostanza gli fornì un ulteriore motivo per conferire con lei; giacché se l'amore poteva anche aspettare, il suo onore sembrava ora chiamato a rispondere per lei: e avendo da parte sua contribuito a macchiare la reputazione di Elena, era suo dovere riparare. Dando prontamente ascolto al dettato di una morale tanto plausibile, decise di perseverare nel suo primo intento. Ma dapprima i suoi sforzi furono indirizzati a scoprire il calunniatore, e ricordando le sorprendenti parole del marchese, il quale aveva ammesso di essere informato delle sue visite serali a villa Altieri, credette di trovare una spiegazione nei dubbi avvertimenti del monaco. Giudicò che quest'uomo doveva essere al contempo la spia dei suoi movimenti e il diffamatore di colei che amava, ma poi la discrepanza fra una tale condotta e l'evidente benignità dei suoi moniti balenò agli occhi di Vivaldi, costringendolo a credere il contrario.
Frattanto il cuore di Elena era non meno agitato. Si dibatteva fra amore e orgoglio: sebbene, qualora Elena fosse stata a parte delle circostanze dell'ultimo colloquio fra il marchese e Vivaldi, l'incertezza sarebbe svanita, e un giusto riguardo per la propria dignità l'avrebbe immediatamente indotta a domare, senza esitazione, quella passione appena nata.
La signora Bianchi aveva informato la nipote del motivo della visita di Vivaldi, attenuando in verità gli aspetti sgradevoli della sua proposta. Aveva in principio semplicemente accennato al fatto che a suo avviso non era da supporre che la famiglia di Vivaldi approvasse un legame con una famiglia tanto inferiore, per rango, quanto la sua, Elena, preoccupata da tale allusione, rispose alla zia che dal momento che lo credeva aveva fatto bene a rifiutare la proposta di Vivaldi; ma il sospiro che accompagnò tali parole non sfuggì all'attenzione della signora Bianchi, che si arrischiò ad aggiungere di non aver respinto del tutto le sue offerte.
Nel corso di questa e di successive conversazioni Elena si compiacque di vedere la propria ammirazione segreta sanzionata dalla autorevole approvazione della zia, che era incline a credere che le circostanze che avevano allarmato il suo giusto orgoglio non fossero poi così umilianti come aveva inizialmente immaginato,
La signora Bianchi da parte sua curò di non manifestare le considerazioni che l'avevano indotta a dare ascolto a Vivaldi, essendo certa che esse non avrebbero avuto alcun peso per Elena: il cuore generoso e la mente inesperta di quest'ultima si sarebbero ribellati a ogni tentativo di tirare in ballo motivi di interesse in un affare sacro quanto il matrimonio. 
Quando però, dopo aver nuovamente riflettuto sui vantaggi che quella unione avrebbe procurato alla nipote, la signora Bianchi decise di assecondare i propositi di Vivaldi e di indirizzare il pensiero di Elena, i cui sentimenti erano erano già dalla sua parte, trovò che le opinioni della nipote erano assai meno malleabili del previsto. Elena era spaventata dall'idea di entrare clandestinamente nella famiglia di Vivaldi.
Ma la signora Bianchi, la cui infermità incalzava i suoi stessi desideri, era a questo punto talmente persuasa della prudenza di quella sistemazione per la nipote che si prefisse di vincerne la riluttanza, pur essendo consapevole del fatto che ciò che richiedeva metodi più graduali e persuasivi di quanto non avesse ritenuto necessario. La sera in cui Vivaldi aveva sorpreso Elena dar voce ai propri sentimenti, l'imbarazzo e l'irritazione della giovane, allorché era tornata a casa a raccontare l'accaduto, avevano mostrato con sufficiente chiarezza alla signora Bianchi la condizione del suo cuore. E quando, la mattina seguente, giunse la lettera di Vivaldi, scritta con la semplicità e il vigore della verità, la zia non tralasciò di adeguare i suoi commenti all'umore di Elena, pur conservando il suo tono abituale. 
Vivaldi, dopo il colloquio con il marchese, trascorse il resto della giornata a elaborare diversi piani che gli consentissero
di scoprire chi fosse colui che aveva oltreggiato la fiducia del padre. La sera tornò ancora una volta a villa Altieri, non di nascosto a cantare la serenata sotto il buio balcone della sua amata, ma separatamente e per conversare con la signora Bianchi, la quale lo accolse stavolta con maggiore cortesia che nella sua visita precedente. Attribuendo l'ansia dipinta sul suo volto all'incertezza circa la disposizione della nipote, non ne fu né sorpresa né offesa, ma tentò di sollevarlo in parte incoraggiandolo a sperare. Vivaldi temeva che la signora gli domandasse ancora delle opinioni della sua famiglia, ma a questo riguardo ella evitò l'imbarazzo sia a lui che a se stessa: e al termine di una lunga conversazione Vivaldi lasciò villa Altieri col cuore un poco rassicurato dalla sua approvazione, e alleggerito dalla speranza, pur non avendo ottenuto di vedere Elena. Quanto a quest'ultima, il modo in cui aveva tradito i propri sentimenti la sera precedente, assieme alle notizie giuntele a proposito della famiglia di lui, avevano prodotto sul suo animo un effetto troppo profondo per permettere un nuovo incontro. Subito dopo il ritorno a Napoli di Vivaldi, la marchesa, che quella sera era stranamente libera da impegni, lo mandò a chiamare nel proprio gabinetto. Qui si ripeté la scena del colloquio con il padre, eccetto che la marchese fu più destra nelle sue domande, e più scaltra nel suo atteggiamento generale: mentre Vivaldi non trascese neppure per un istante la buona creanza dovuta a una scelta, fu meno veemente del marchese nelle sue osservazioni e minacce, forse soltanto perchè nutriva maggiori speranze di quest'ultimo di impedire il danno che stava per compiersi. Vivaldi la lasciò senza che i suoi argomenti l'avessero convinto, né le sue profezie domato, né i suoi piani impensierito. Non si preoccupava troppo perché non conosceva abbastanza il carattere della madre per indovinarne i propositi. Disperando di realizzare questi per mezzo della nuda forza, la marchesa ricorse a un assistente dal talento non comune, la cui natura e mentalità ben si addattavano a farne un valido strumento nelle sue mani. Era forse la bassezza del suo stesso cuore, non certo la profondità del pensiero o l'acume del discernimento a porre la marchesa in condizione di comprendere il carattere di costui: carattere che ella risolse di modellare in maniera rispondente ai propri fini.
Viveva nel convento domenicano di Santo Spirito a Napoli un uomo chiamato padre Schedoni: un italiano, come indicava il nome,la cui famiglia era però sconosciuta, anzi da alcune circostanze pareva che egli desiderasse coprire di un velo impenetrabile le proprie origini.    
Quali ne fossero le ragioni, non lo si udì mai accennare a un parente, o al luogo in cui era nato ed era solito eludere con abilità qualunque domanda gli venisse rivolta a tale riguardo, come occasionalmente avveniva per la curiosità dei suoi compagni. Vi erano del resto certi fatti che sembravano indicarlo come un uomo di nobile nascita ma di sostanze decadute; il suo spirito, che talvolta emergeva dietro la mascheratura dei modi esteriori, appariva altero, pur non dando prova delle aspirazioni di un animo generoso, ma piuttosto del cupo orgoglio generato dalla delusione. Alcune persone del convento, incuriosite dal suo aspetto, credevano che le stranezze dei suoi modi, l’austero riserbo e il silenzio impenetrabile, l’abitudine di stare da solo e le frequenti penitenze, fossero l’effetto di qualche sciagura che tormentava il suo spirito inquieto e altezzoso; altri invece ne facevano la conseguenza di un orrendo crimine che rosicava la sua coscienza ravveduta.
A volte si appartava per giornate intere dalla sua confraternita. Quando poi era costretto a riunirsi insieme agli altri, pareva non sapere dove si trovasse e continuava a rinchiudersi nel silenzio e nella meditazione finché non era di nuovo solo. Nonostante i suoi movimenti fossero stati spiati e i suoi ritiri abituali esaminati, certe volte non si sapeva il luogo dove si era appartato. Nessuno lo aveva mai sentito lamentarsi. I fratelli più anziani del convento
sostenevano che egli possedesse del talento, ma non gli riconoscevano alcuna erudizione. Lo apprezzavano per il profondo acume dimostrato in occasione di varie discussioni, ma osservavano che quando la verità stava in superficie raramente riusciva a inseguirla attraverso gli intricati labirinti della disquisizione, ma se la lasciava sfuggire quando gli si presentava senza travestimenti. In effetti poco gli importava della verità, né la ricercava per mezzo di ragionamenti lineari e universali, ma amava esercitare la scaltrezza e la malizia del suo ingegno, inseguendola attraverso artificiose complicazioni.
Alla fine, abituata all’intrigo e al sospetto, la sua mente contorta non riusciva a prendere per vero ciò che era semplice e    
di facile comprensione. Nessuno dei suoi confratelli lo amava, molti lo detestavano e più ancora lo temevano. La sua figura colpiva, e non certo per la grazia. Era alto, e, nonostante fosse molto magro, le sue membra erano grosse e sgraziate. Quando camminava avvolto nella tonaca nera del suo ordine c’era qualcosa di terribile in lui, quasi di sovrumano. Anche la tonaca, velando di un’ombra il livido pallore del volto, accresceva la severità del suo carattere e conferiva un’aria pressoché orribile al suo sguardo malinconico.
Non si trattava neppure della malinconia di un cuore sensibile e ferito, ma della tetraggine propria di una natura feroce.
C’era qualcosa di molto strano nella sua fisionomia, e non facilmente definibili. Recava i segni di numerose passioni che sembravano rimaste impresse sulle fattezze di un viso che avevano cessato di animare. Tristezza e austerità regnavano costantemente fra le profonde pieghe del suo volto. I suoi occhi erano così penetranti che parevano incunearsi al primo sguardo fin dentro al cuore degli uomini e leggervi i pensieri più segreti. Pochi riuscivano a reggere quegli occhi indagatori o a sopportare d’incontrarli una seconda volta. Eppure, nonostante tutta la sua cupezza e la sua austerità, in alcune rare occasioni il suo viso assumeva un’espressione completamente diversa. Sapeva adattarsi con straordinaria facilità alla mentalità e agli umori delle persone che voleva accattivarsi, e in genere ci riusciva perfettamente. Questo monaco, questo Schedoni, era il Confessore e il consigliere privato della marchesa Vivaldi. Quando scoprì che il figlio progettava il matrimonio, sotto l’impulso iniziale dell’orgoglio e dell’indignazione, la donna consultò il monaco su come impedirlo e vide ben presto che l’ingegno di quell’uomo soddisfaceva i suoi desideri. Ciascuno dei due poteva essere di grande aiuto all’altro. Schedoni era sagace e ambizioso, la marchesa orgogliosissima e aveva influenza a corte. L’uno sperava con i suoi servizi di ottenere un grande beneficio, l’altra con le sue concessioni di salvare l’illusoria dignità della casata. Mossi da queste passioni e allettati da queste prospettive concordarono in segreto, senza farlo sapere nemmeno al marchese, come realizzare il loro comune intento. Vivaldi incontrò Schedoni nel corridoio che portava al salottino della madre. Sapeva che era il suo Confessore e non fu molto sorpreso nel vederlo, anche se l’ora era insolita.    
Schedoni passando chinò la testa e assunse un’aria mite e pia, ma Vivaldi, osservandolo con uno sguardo penetrante, sussultò preso da un’involontaria emozione, come assalito dal raggelante presentimento di ciò che il monaco aveva in serbo per lui.